Anche una condotta di silenzio malizioso, mantenuto per trarre in inganno la controparte nell’ambito di un contratto di lavoro, integra gli estremi del dolo omissivo, determinando la nullità del documento

A seguito all’apertura di una procedura di mobilità, un lavoratore aveva sottoscritto  in sede sindacale un verbale di conciliazione con il quale aveva sostanzialmente accettato il licenziamento. La società datrice, infatti, gli aveva fatto credere che la propria posizione lavorativa era da sopprimere, mentre in realtà era stata mantenuta.
La vicenda è approdata quindi nella aule giudiziarie, ma sia in primo grado che in appello il lavoratore si è visto respingere l’istanza di annullamento del verbale. Il Giudice di secondo grado, in particolare, ha ritenuto che l’appellante non avesse dimostrato la sussistenza del raggiro da parte della propria azienda consistente nel fargli firmare il documento inducendolo di fatto a formalizzare l’accettazione del licenziamento, in esito all’accordo sindacale. Non era neppure stato dimostrato che il lavoratore fosse caduto in un ‘errore colpevole’.
Nella speranza di vedere riconosciuta l’illegittimità del licenziamento il lavoratore ha quindi presentato ricorso alla Corte di Cassazione, che ha effettivamente riconosciuto le sue ragioni disponendo l’annullamento della sentenza della Corte d’appello.
Secondo gli Ermellini, infatti, il Giudice di merito aveva sbagliato in quanto non aveva valutato se la condotta della società datrice di lavoro fosse stata idonea a trarre in inganno il lavoratore. La Suprema Corte ha evidenziato al riguardo che anche una condotta di silenzio malizioso, “serbato su circostanze rilevanti ai fini della valutazione delle reciproche prestazioni da parte di colui che abbia il dovere di farle conoscere, costituisce, per l’ordinamento penale, elemento del raggiro, idoneo ad influire sulla volontà negoziale del soggetto passivo”.
Tale silenzio, nell’ambito di un contratto di lavoro, laddove volto a realizzare l’inganno perseguito determinando l’errore del deceptus (ovvero il contraente raggirato) integra gli estremi del dolo omissivo rilevante ai sensi dell’articolo 1439 del codice civile.
I Giudici del Palazzaccio, pertanto, con la sentenza n. 8260/2017, hanno accolto il ricorso del lavoratore rinviando la causa alla Corte d’appello affinché si pronunci nuovamente valutando opportunamente la “idoneità della condotta della società datrice ad integrare un dolo omissivo in danno del proprio dipendente”.

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