Il concorso del fatto colposo del creditore. Interpretazione del canone di diligenza secondo l’art. 1227 c.c. 1° e 2° comma. La funzione “sociale” del concorso di colpa del creditore. Caratteri strutturali dell’art. 1227 c.c. La sentenza n° 1667 dell’11.3.2015 sulla responsabilità ed il concorso di colpa del danneggiato

L’onere della prova, secondo l’art. 2697 c.c., spetta al danneggiato (attore) dimostrare l’esistenza di tutti gli elementi indefettibili del fatto illecito, in quella contrattuale si ha inversione.

Il legislatore ha introdotto una presunzione relativa di colpevolezza del debitore che si rende inadempiente per la responsabilità contrattuale, però si tratta di presunzione relativa, per cui il debitore proverà l’assenza di colpa propria per impossibilità derivata da causa non a lui imputabile.

La distinzione tra i due tipi di responsabilità presenta confini sempre più mobili.

La tutela aquiliana viene estesa a beni giuridici che storicamente ne erano esclusi; in primis l’interesse legittimo e per altro verso si assiste alla trasmigrazione nell’ambito della responsabilità contrattuale di fattispecie tradizionalmente ricondotte all’illecito extracontrattuale, come nel caso degli obblighi di protezione.

Vi sono infatti situazioni in cui il soggetto danneggiante, pur non essendo vincolato al danneggiato da un rapporto obbligatorio in senso stretto, è legato allo stesso in via di fatto da una relazione, c.d. contatto sociale qualificato, che espone quest’ultimo ad un rischio specifico e più intenso rispetto alla generalità dei consociati e che, pertanto, viene considerato sufficiente a fondare una responsabilità di tipo contrattuale anche a prescindere dalla sussistenza di un vincolo pattizio.

A quali condizioni una relazione di fatto rilevante sul piano sociale sia tale da far sorgere doveri specifici di protezione di determinati beni giuridici, ossia a quali condizioni il contatto sociale possa dirsi “qualificato” dall’ordinamento giuridico. Funzionalmente omogenea alla categoria della responsabilità da contatto è quella degli obblighi di protezione: entrambi sarebbe illeciti aquiliani, ma per fatti e comportamenti vengono assorbiti nella responsabilità contrattuale in modo da accordare una tutela specifica per certi versi più intensa di quella che spetta alla generalità dei terzi estranei.

Bisogna, a questo punto, valutare se è possibile in capo al medesimo soggetto il concorso di responsabilità contrattuale e aquiliana. In caso di concorso c.d. improprio è senz’altro ammissibile, come ad esempio nel caso dell’alloggio per il servizio di portierato.

Si ha “concorso proprio” quando danneggiante e danneggiato coincidano con le parti del rapporto obbligatorio ed il danno è conseguenza diretta ed immediata dell’inadempimento. Parte della dottrina esclude il concorso tra i due tipi di responsabilità perché la responsabilità contrattuale rivestirebbe carattere di specialità rispetto alla responsabilità aquiliana.

Altra parte dottrina ritiene, invece, che nel caso in cui ricorrano i presupposti per l’una e l’altra azione, non vi sia alcuna ragione per eludere uno dei due rimedi ed impedire la scelta al titolare.

L’impostazione consolidatasi nel tempo, in dottrina e giurisprudenza, reputa prioritaria la garanzia più elevata possibile della posizione giuridica del soggetto leso, anche in ossequio alla nuova ottica riparatoria della responsabilità extracontrattuale.

Varie pronunce della Suprema Corte sono da interpretare in tal senso, in base alle quali il danneggiato è legittimato ad esercitare, in via alternativa o concorrente, entrambe le azioni connesse ai due tipi di responsabilità, perché ovviamente, ricorrano tutti gli elementi richiesti rispettivamente per ognuna e lo stesso fatto costituisca violazione o di un obbligo contrattuale o del principio del neminem laedere.

Sono indispensabili, in definitiva, tre condizioni: l’unicità del fatto lesivo, la coincidenza soggettiva danneggiante- debitore e danneggiato-creditore, la derivazione oggettiva del danno aquiliano come conseguenza diretta dell’inadempimento dell’obbligazione.

La facoltà di cumulo delle azioni consente all’attore un aumento economico della pretesa risarcitoria, la giurisprudenza ha accordato doppio canale risarcitorio: negligente esecuzione di interventi chirurgici, lesioni causate al dipendente in violazione degli obblighi di sicurezza ex art. 2087 c.c. e normativa di settore.

Così anche nel caso di responsabilità da prodotti difettosi, come ad esempio l’esplosione della bottiglietta contenente una bibita gassata, per cui vi è concorso di responsabilità per violazione del contratto di mandato con deposito.

La giurisprudenza processuale ritiene che il concorso di responsabilità consenta all’ attore di scegliere solo il regime giuridico applicabile alla fattispecie.

A seguito dell’inadempimento, il debitore non sarà tenuto alla prestazione originaria, ma ad una nuova prestazione. Il debitore avrà l’onere di provare l’inadempimento dovuto ad impossibilità della prestazione. Il risarcimento del danno è un rimedio generale contro l’illecito, contrattuale ed extracontrattuale.

Il danno può essere inteso come evento lesivo, cioè come risultato materiale o giuridico in cui si concreta la lesione di un interesse giuridicamente apprezzabile. Può anche essere inteso come effetto economico negativo cioè quale complessiva sofferenza patrimoniale.

In un terzo significato può essere inteso come liquidazione pecuniaria dell’effetto economico negativo.

In dottrina si distingue il danno-evento, che integra l’illecito secondo il principio di imputazione, e il danno conseguenza, le cui conseguenze pregiudizievoli sono rilevanti secondo il principio di causalità. Le norme non qualificano il danno come ingiusto in quanto in presenza di un vincolo obbligatorio la violazione non può che essere ontologicamente antigiuridica e come tale ha bisogno di una verifica nel  caso concreto.

In assenza di specifica disposizione di legge il danno non patrimoniale non è mai risarcibile a titolo contrattuale, dovendosi affermare il principio della necessaria patrimonialità del danno ai sensi dell’art. 1223 c.c.

Al contrario, in senso positivo, si è osservato che nella disciplina dell’art. 1223 c.c. e ss. non figura una norma come quella del 2059 che limita il risarcimento ai danni non patrimoniali ai casi previsti dalla legge.

La struttura stessa dell’obbligazione ai sensi del 1174 c.c. indurrebbe a riconoscere la risarcibilità del danno non patrimoniale in quanto solo la prestazione deve avere contenuto patrimoniale mentre l’interesse del creditore può anche essere di carattere non patrimoniale.

L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., avallata dalle S.U. Cassazione del 2008, consente oggi di affermare in modo incontrovertibile che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali.

Dal principio del necessario riconoscimento della minima tutela costituita dal risarcimento consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l’obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità contrattuale o extracontrattuale.

L’art. 1227 c.c., sempre con riferimento ai danni risarcibili, limita il risarcimento del danno a carico del debitore inadempiente in relazione al comportamento colposo del creditore che, con la propria condotta, abbia concorso a determinare il danno; in tal caso il risarcimento del danno è diminuito nella misura determinata dalla gravità della colpa e dall’entità delle relative conseguenze.

Il 2° comma dell’art. 1227 c.c. stabilisce un altro limite al risarcimento del danno, nel senso che il debitore inadempiente non è tenuto a risarcire quella quota di danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza; qui il danno è eziologicamente imputabile al solo danneggiante, ma le conseguenze dannose avrebbero potuto essere impedite o attenuate da un comportamento diligente del danneggiato.

Secondo la giurisprudenza tale fattispecie configurerebbe un’eccezione processuale in senso stretto.

L’impostazione tradizionale, estremamente rigorosa, è stata rivisitata dalla giurisprudenza più recente che ha accolto un’interpretazione estensiva ed evolutiva del comma 2° dell’art. 1227 c.c.
Il creditore non è gravato soltanto dall’obbligo negativo di astenersi dall’aggravare il danno, ma anche da un obbligo positivo di tenere quelle condotte, anche positive esigibili, utili e possibili rivolte a ridurre il danno.

Un orientamento del genere si fonda sulla lettura dell’art. 1227, 2° comma, effettuata alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175-1375 c.c. in una logica di solidarietà sociale dettata dall’art. 2 della Costituzione, interpretata come norma immediatamente percettiva, nel senso di qualificare alla stregua di una obbligazione di correttezza a carico del creditore la cooperazione alla riduzione de danno.

Il ruolo svolto dal criterio della buona fede o correttezza in quanto riferito anche al creditore, e non solo al debitore, è allora quello di fondare ex lege una serie di obblighi, integrativi del regolamento contrattuale, di protezione delle rispettive sfere giuridiche e di esercitare un controllo sulla legittimità delle pretese del creditore di fronte all’inadempimento del debitore.

L’unico limite all’obbligazione positiva del creditore ed agli sforzi da lui esigibili è rappresentato dal c.d. apprezzabile sacrificio. Il danneggiato è tenuto ad agire diligentemente per evitare l’aggravarsi del danno, ma non fino al punto di sacrificare i propri rilevanti interessi personali e patrimoniali, attraverso il compimento di attività complesse, impegnative e rischiose dal punto di vista tecnico ed economico.

Come è stato rilevato da alcuni autori, tutto ciò che può essere chiesto al creditore/danneggiato è solo uno sforzo ragionevole. Una precisazione, in tal senso, perviene da recente giurisprudenza, secondo la quale, nell’ambito della ordinaria diligenza richiesta al creditore devono essere comprese “soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali, o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici”.

E’ stato osservato che, nella dinamica del rapporto obbligatorio, il tema del concorso della colpa è stato inquadrato, da parte della dottrina, nell’ambito del principio di autoresponsabilità, per il quale ognuno deve essere garante degli atti che compie e deve comportarsi secondo regole di correttezza e buona fede.

Secondo tale orientamento, l’art. 1227 c.c. costituisce una applicazione diretta del principio di correttezza, in quanto impone al creditore l’uso della normale diligenza del buon padre di famiglia per circoscrivere o comunque non aggravare il pregiudizio subito.

Altra parte della dottrina individua, diversamente, il fondamento della norma nel principio di causalità per cui al danneggiante non può addebitarsi quella parte di danno che non è a lui casualmente imputabile.

Le sezioni unite della Cassazione n° 24406 del 21.11.2011 hanno affrontato la questione dell’esistenza nel nostro ordinamento del principio di autoresponsabilità, ravvisando nell’art.1227 c.c. un corollario del principio di causalità, statuendo che la colpa, cui fa riferimento l’art. 1227 c.c., va intesa nel senso di criterio di imputazione del fatto bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato.

La Corte ha risolto il contrasto giurisprudenziale sorto, con riferimento al comportamento secondo correttezza e buona fede fondato sull’art. 1175 c.c., ritenendo che un identico criterio deve essere utilizzato anche per valutare la condotta del danneggiato, tenuto ad adoperarsi per evitare che si verifichi un evento lesivo in suo danno, secondo i comuni principi di diligenza.

Le sezioni unite hanno respinto l’orientamento giurisprudenziale per il quale ai fini della responsabilità per danni da condotta omissiva non è sufficiente richiamarsi al principio del neminem laedere o ad una generica antidoverosità sociale dell’inerzia, ma occorre individuare un vero e proprio obbligo giuridico di impedire l’evento fondato su una specifica norma di legge ovvero su una previsione contrattuale.

In una visione moderna dei rapporti sociali, la pronuncia della Corte ha l’indubbio pregio di aver collocato la previsione di cui al primo comma dell’art. 1227 c.c. nell’ambito del principio solidaristico, che impone ad una parte di salvaguardare la sfera giuridica dell’altra, prevedendo uno specifico dovere di cooperazione.

In tal modo la condotta del creditore-danneggiato deve essere valutata sotto il profilo soggettivo della colpa.

In altri termini le Sezioni Unite, hanno superato il principio secondo il quale, per dimostrare il concorso del fatto colposo del danneggiato, è necessaria la c.d. colpa specifica, per affermare che anche un comportamento omissivo caratterizzato dalla colpa generica è sufficiente a fondare il concorso di colpa del creditore–danneggiato.

In entrambe le ipotesi disciplinate dall’art. 1227 c.c. il comportamento negligente del creditore si pone in relazione con la condotta del debitore danneggiante e condiziona la misura del risarcimento dovuto, che è diminuita in proporzione della colpa del creditore.

La liquidazione del danno avviene perciò mediante una valutazione della proporzione delle rispettive colpe e dell’entità delle conseguenze che ne sono derivate mentre non sono risarcibili ai sensi dell’art. 1227 c.c. i cc.dd. “danni risarcibili” ossia quelli causati esclusivamente dalla condotta del creditore che non si pongono in relazione causale con la colpa del danneggiante.

I distinti rapporti di causalità materiale e di causalità giuridica disciplinati rispettivamente dal primo e secondo comma dell’art. 1227 c.c. oltre che sul piano strutturale, operano diversamente anche con riferimento al piano della rilevabilità nonché dell’onere probatorio.

La giurisprudenza distingue le due ipotesi, fermo restando l’onere a carico del danneggiante di provare che il danno sia stato prodotto, almeno in parte, dal comportamento colposo del danneggiato. La prima ipotesi è rilevabile d’ufficio, sulla base delle prove comunque acquisite, mentre la seconda è eccezionale in senso stretto.

La posizione empirica della giurisprudenza, di recente, con sentenza n° 1667 dell’11.3.2015 della Corte d’Appello di Roma, dimostra come in una controversia in tema di specifica responsabilità di medical malpractice, che sembra rappresentare una novità assoluta, abbia deciso a favore del danneggiato nonostante che lo stesso si sia colposamente e/o volontariamente procurato le lesioni personali,  rendendo necessario il trattamento diagnostico e terapeutico, rivelatosi poi eseguito non correttamente, dannoso per la salute del paziente.

La posizione assunta dai giudici capitolini sembra mostrare un atteggiamento di favore forse eccessivo nei confronti del contraente più debole, ovvero il paziente insoddisfatto, pur di contrastare il fenomeno della medicina difensiva, compito che dovrebbe spettare in via prioritaria al legislatore. Questi, con la cd. Legge Balduzzi, d.l. n° 158 del 13.9.2012 ha cercato di contenere quell’atteggiamento di reazione alla pressione giudiziaria alla quale sono quotidianamente esposti i professionisti sanitari che finiscono per prendere decisioni che non perseguono il bene del paziente quanto piuttosto l’intento di evitare di essere coinvolti in procedimenti giudiziari a loro carico.  La responsabilità civile è notoriamente uno dei settori del diritto in cui l’apporto creativo degli interpreti assume maggior rilievo di interventi e di qualità di risultati, ma l’applicazione della regola del concorso di colpa per correggere un’interpretazione giurisprudenziale obbligata da necessità non  strettamente giuridiche rinvierà sicuramente ad ulteriori sviluppi da parte dei giudici che interverranno al riguardo.

Dott. Vincenzo Caruso

Assistenza Legale
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