La Corte di Cassazione ha escluso la correlazione causale tra la neoplasia diagnosticata alla vittima e l’esposizione ai campi elettromagnetici o ad oli contenenti PCB: niente risarcimento per gli eredi dell’operaio

Nel 2014 la Corte di Appello di Reggio Calabria aveva respinto le domande degli eredi di un dipendente Enel, impiegato dal 1970 al 1999 come operaio manutentore, volte ad ottenere da quest’ultima il risarcimento dei danni subiti dal loro congiunto in relazione alle patologie contratte a causa del lavoro svolto, che lo avevano condotto alla morte.

Sulla base dell’istruttoria espletata e della CTU, la Corte territoriale aveva escluso che le mansioni svolte dal de cuius avessero comportato una esposizione a campi elettromagnetici o ad oli contenenti PCB di intensità e frequenze tali da poter svolgere un ruolo causale o concausale nell’insorgenza della patologia epatica e della aplasia midollare e, successivamente, della neoplasia della lingua che lo condusse alla morte.

La Corte di Cassazione (sentenza n. 18701/2019) ha confermato la decisione impugnata ritenendo il ricorso formulato dagli eredi della vittima in parte infondato e in parte inammissibile.

Invero, questi ultimi avevano lamentato la lacunosità della CTU per aver omesso di valutare il PBC quale fattore scatenante le neoplasie, in tal modo disattendendo i canoni fondamentali della scienza medico legale, “cristallizzati nei numerosi studi pubblicati, che ha classificato i PBC quali ‘agenti cancerogeni’ per l’uomo”.

Al riguardo gli Ermellini hanno chiarito che nelle ipotesi in cui il giudice respinga o accolga la domanda avvalendosi del parere di un consulente tecnico d’ufficio, tanto più quando è richiesto un accertamento di situazioni rilevabili solo con l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche, egli non è tenuto a giustificare diffusamente le ragioni della propria adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, ove manchino contrarie argomentazioni delle parti o esse non siano specifiche potendo, in tal caso, limitarsi a riconoscere quelle conclusioni come giustificate dalle indagini svolte dall’esperto e dalle spiegazioni contenute nella relativa relazione.

In ogni caso, è consolidato il principio di diritto secondo cui il vizio, denunciabile in sede di legittimità, della sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni della perizia medico legale è ravvisabile solamente nel caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata nella omissione degli accertamenti strumentali dai quali secondo le predette nozioni non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico che si traduce in una inammissibile critica del convincimento del giudice (cfr. ex multis Cass. n. 1652 del 2012; n. 569 del 2011; n. 9988 del 2009).

Ebbene, nel ricorso le parti non avevano riportato né i contenuti della CTU né quelli delle fonti che – a loro detta – avrebbero palesato la devianza dalle correnti nozioni della scienza medica.

Quanto invece alla “natura tabellata della malattia riscontrata”, la Corte di Cassazione ha già chiarito che “in caso di malattia, come quella tumorale, ad eziologia multifattoriale, la prova della correlazione causale non può consistere in semplici presunzioni desunte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma deve consistere nella concreta e specifica dimostrazione, quanto meno in via di probabilità, della idoneità della esposizione al rischio a causare l’evento morboso, per cui è pur sempre necessario che si tratti di “probabilità qualificata”, da verificarsi attraverso ulteriori elementi idonei a tradurre la conclusione probabilistica in certezza giudiziale”.

Nel caso in esame non era stato affatto negata la possibile correlazione tra contatto con i PCB e talune patologie neoplastiche. La causalità, tuttavia, era stata esclusa per le concrete modalità esecutive della prestazione di lavoro: un giudizio che, peraltro – hanno osservato gli Ermellini –, “appartiene pienamente alla quaestio facti come tale insindacabile in questa sede”.

Il ricorso è stato allora respinto con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese di lite.

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