Il ricorrente espone di avere lavorato come operaio carpentiere dal 1971 e deduce che a causa delle mansioni svolte aveva subito danni all’apparato uditivo (Tribunale di Bari, Sez. Lavoro, Sentenza n. 3360/2021 del 23/11/2021-RG n. 3651/2020)

Il ricorso viene ritenuto fondato.

Dalla lettura dell’art. 41 e successivi del D.Lgs. n. 277/91 (attuativo di direttive comunitarie), se per un verso emerge che il valore dei 90 d.B.A. (oggi 80 in virtù delle nuove tabelle delle malattie professionali) per l’esposizione quotidiana del lavoratore al rumore rappresenta la soglia di intollerabilità, il cui superamento determina particolari obblighi del datore di lavoro, risulta anche che l’esposizione a rumori superiori agli 80 decibel comporta per il datore di lavoro obblighi di “informazione e formazione”, e che già il superamento della soglia di 85 decibel richiede l’adozione di adeguati mezzi di protezione e l’assoggettamento del lavoratore a controllo sanitario.

Consegue da ciò che anche l’esposizione a rumorosità non eccedente l’indicato limite dei 90 d.B.A. può essere reputata idonea a recare danni all’apparato uditivo, tenendo conto anche alla diversa capacità di resistenza di ciascun organismo.

L’esposizione del ricorrente ad una rumorosità inferiore alla predetta soglia di 90 d.B.A. non è di per se sola ostativa della configurabilità di una malattia professionale indennizzabile.

Il ricorrente ha svolto attività lavorativa presso svariati cantieri, con mansioni di operaio carpentiere e utilizzato strumenti ad alta rumorosità (martelli pneumatici, frese, martelli perforatori, seghe elettriche, trapani ecc.).

Dalle prove testimoniali è emerso che l’attività svolta dal lavoratore avveniva anche in ambienti particolarmente rumorosi.

Viene, dunque, ritenuta con ragionevole certezza la sussistenza di effettivo rischio ambientale.

Il CTU ha confermato l’esistenza della malattia denunciata dal ricorrente (ipoacusia bilaterlate di medio grave entità), riconoscendo la sussistenza del nesso eziologico tra attività lavorativa e malattia, con una percentuale di invalidità del 11%.

La giurisprudenza di legittimità – al fine della valutazione della pregnanza della prova dell’origine professionale della malattia denunciata – è passata da un giudizio di certezza, ad uno di probabilità, ed infine alla semplice compatibilità.

In particolare, la prova deve avere un grado di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’ eziopatogenesi professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità, per accertare il quale il giudice deve non solo consentire all’assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, ma deve altresì valutare le conclusioni probabilistiche del CTU in tema di nesso causale, facendo ricorso anche ad ogni utile iniziativa ex officio diretta ad acquisire ulteriori elementi (assunzione di deposizioni testimoniali, richiesta di chiarimenti al consulente tecnico e quanto altro si appalesi opportuno) in relazione all’entità ed alla esposizione del lavoratore ai fattori di rischio.

Applicando tali principi, viene rilevato che le conclusioni peritali hanno riconosciuto il nesso causale, indicando quale criterio eziologico cui riferire l’insorgenza della malattia, l’esistenza di certezza della sussistenza del nesso eziologico.

La domanda viene accolta e l’Istituto viene condannato al pagamento dell’indennizzo in capitale pari all’11% di inabilità permanente a decorrere dal primo giorno del mese successivo alla presentazione della domanda.

Il credito per sorte capitale va maggiorato degli interessi legali, ovvero rivalutato, qualora la svalutazione monetaria dovesse essere stata nel tempo superiore al tasso legale di interesse, con decorrenza dal 121 giorno successivo alla maturazione del diritto, sino all’ effettivo soddisfo.

Avv. Emanuela Foligno

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