Collaboratrice scolastica indagata per non aver impedito maltrattamenti sui minori di una scuola d’infanzia: la Corte di Cassazione ha rinviato la causa al giudice di merito per valutare l’applicabilità nei suoi confronti della misura degli arresti domiciliari

La vicenda

Il Gip del Tribunale di Lamezia Terme aveva disposto la misura degli arresti domiciliari a carico di una collaboratrice scolastica indagata per maltrattamenti nei confronti degli allievi di una scuola di infanzia.

La donna rispondeva del reato ascritto per non aver impedito le condotte di maltrattamento poste in essere da una maestra e per aver ella stessa percosso i bambini, urlato contro di loro, nonché per averli derisi e costretti a mangiare.

Il Tribunale del riesame di Catanzaro annullava poi l’ordinanza, ritenendo che non vi fosse stato alcun maltrattamento ai danni dei minori; al massimo le condotte contestate erano qualificabili come forme di violenza lieve, nel senso che le uniche azioni che avrebbero potuto travalicare il limite della lieve entità erano rappresentate dagli “strattoni” e da un singolo episodio di uno schiaffo alla nuca di un bambino; per il resto si trattava di comportamenti “rientranti in metodi educativi, sebbene obsoleti”, ma privi di rilevanza penale.

Il giudice cautelare riqualificava pertanto il reato contestato alla collaboratrice scolastica in quello di abuso dei mezzi di correzione, che comunque, non giustificava l’adozione della misura degli arresti domiciliari nei suoi confronti.

Il giudizio di legittimità

La Corte di Cassazione ha da tempo specificato quali sono i canoni valutativi cui il giudice di merito deve attenersi nel distinguere la condotta di maltrattamenti da quella di abuso di mezzi di correzione. Si tratta di comportamenti non isolati, ma ripetuti nei confronti di alunni che eccedono palesemente la finalità educativa e superano i limiti dell’uso dei mezzi di correzione.

L’uso sistematico della violenza – hanno affermato gli Ermellini – quale ordinario trattamento del minore affidato, anche lì dove fosse sostenuto da animus corrigendi, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso di mezzi di correzione, ma concretizza sotto il profilo oggettivo e soggettivo gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti.

Dalle intercettazioni ambientali e dalle videoregistrazioni era emerso che l’insegnante fosse solita schiaffeggiare i bambini sul viso, sulla nuca, sulle mani e sul fondo schiena, offenderli, sbattere l’asta di legno sulla cattedra al fine di zittirli, o punirli costringendoli a stare seduti immobili e in silenzio su una panca per trenta, quaranta minuti; ma mai l’indagata si era adoperata a impedire il perpetrarsi di simili condotte.

La decisione

Con riguardo al requisito della abitualità e all’elemento soggettivo, ritenuti insussistenti dal Tribunale del riesame in ragione della “variabilità” della persona offesa, i giudici della Suprema Corte hanno osservato che la contestazione riguardava atti di maltrattamento posti in essere in danno di minori affidati alle insegnanti nell’ambito di una specifica classe dell’istituto di istruzione; sicché, a prescindere dall’eventuale assenza di specifiche condotte violente, restava il fatto che tali comportamenti fossero in grado di determinare in tutti i bambini della scuola un grave stato di soggezione psicologica in relazione al quale il Tribunale non aveva apprestato un’adeguata motivazione.

È stata invece, ritenuta illogica l’ordinanza impugnata nella parte in cui aveva affermato la lieve entità di alcune condotte in termini assoluti senza rapportarle alle età delle vittime e a quanto riferito dai genitori in ordine alle ansie, alle paure e ai timori dei figli. In altre parole, per i giudici della Suprema Corte, il Tribunale del riesame non si era preoccupato di calare gli elementi sopra citati all’interno del contesto storico-fattuale.

Avv. Sabrina Caporale

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