La Cassazione ha respinto il ricorso degli imputati giudicati colpevoli di gesti goliardici e di scherno da ricondurre al reato di molestia

Condannati in primo e secondo grado di giudizio “perché, in concorso tra loro, per petulanza o altro biasimevole motivo”, avevano recato molestia e disturbo a un giovane collega ventiquattrenne, borsista presso un vivaio forestale. E’ la vicenda di due imputati che i giudici del Tribunale e della Corte d’appello hanno ritenuto “esenti da profili di dolo di violenza sessuale”, ma colpevoli di comportamenti  “che configuravano, piuttosto, gesti goliardici e di scherno”, da ricondurre reato di molestia nei confronti del ragazzo, il quale era “affetto da deficit cognitivo e da problemi di alcoolismo, seguito dai servizi sociali”.

In particolare il giovane veniva invitato a “compiere atti di esibizione sessuale”, come abbassarsi i pantaloni e mostrare le parti intime, e veniva contattato sulla sua utenza telefonica mobile per appuntamenti a sfondo sessuale, oltre ad essere apostrofato con l’epiteto di “squilibrio””.

Proprio in virtù delle condizioni soggettive della vittima, i giudici avevano ritenuto particolarmente grave la condotta degli imputati, in quanto avevano “approfittato delle note condizioni di fragilità della persona offesa, rendendola bersaglio di insulti, ironie e vessazioni di vario genere sul posto di lavoro e per telefono”.

La vicenda è quindi approdata in Cassazione, con il ricorso presentato dagli imputati che hanno evidenziato, di fronte alla Suprema Corte, come la Corte d’appello avesse “acriticamente accreditato” la versione del ragazzo, sentendo solamente  testimoni che avrebbero riferito quanto loro raccontato dalla stessa persona offesa, la cui attendibilità non era stata adeguatamente verificata.

La Corte di Cassazione penale, tuttavia, con la sentenza n. 49573 del 22 novembre 2016, ha respinto argomentazioni avanzate, rigettando il ricorso. Per gli Ermellini, infatti, la decisione della Corte d’Appello risultava “completa, corretta e coerente”. Il giudice di secondo grado, infatti, aveva vagliato “l’intrinseca affidabilità della versione della persona offesa, nella pur documentata fragilità delle sue condizioni psico-fisiche”, essendo stati “rilevati e apprezzati anche altri elementi di prova che ne hanno confermato l’attendibilità”.

Inoltre, la conferma della versione della persona offesa si poteva ragionevolmente desumere anche dalla testimonianza dell’assistente sociale intervenuta a tutela della vittima dopo aver raccolto la denuncia di quanto accadeva all’interno del vivaio.

Infine, per gli Ermellini la Corte d’appello aveva tenuto in considerazione le testimonianze a favore degli imputati, rilevandone tuttavia “la inidoneità a contraddire la prova a carico”, anche perché provenienti da persone che non avevano assistito agli episodi di molestia.

 

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