La donna, incinta di due gemelline, era deceduta dopo un’agonia di diverse ore. Le conclusioni del consulente della Procura avevano escluso il nesso di causalità con l’operato del personale sanitario

Morì lo scorso aprile presso la clinica Mangiagalli di Milano assieme alle due gemelline che portava in grembo. A sei mesi di distanza da quella tragedia il consulente nominato dai familiari della vittima ha ravvisato un nesso di causalità tra il decesso delle 36enne, originaria della Valtellina, e l’operato di alcuni medici della struttura sanitaria. L’inchiesta aperta dalla Procura di Milano aveva visto l’iscrizione nel registro degli indagati di 4 persone, tutte per concorso in omicidio colposo. Si tratta di una ginecologa, una psichiatra e due ostetriche.

Le conclusioni del consulente di parte vanno in direzione opposta a quelle del medico legale incaricato dal Pubblico ministero che aveva invece escluso il nesso tra la morte e la condotta del personale sanitario. Per quest’ultimo la paziente sarebbe morta per un’emorragia interna provocata da un’endometriosi, malattia che colpisce il tessuto dell’utero e che è molto difficile da diagnosticare.

La donna, rimasta incinta grazie alla fecondazione assistita, era già stata ricoverata nei giorni precedenti all’Ospedale San Raffaele per complicazioni nel corso della gravidanza. Continuando a lamentare forti dolori addominali anche dopo le dimissioni si era quindi recata al Pronto soccorso della clinica Mangiagalli, dove era stata ricoverata nel Dipartimento materno-infantile, per poi morire il giorno successivo a causa di una emorragia interna.

La mattina del decesso ebbe cali di pressione e svenne più volte. Secondo la perizia dell’esperto incaricato dai parenti, se la ginecologa avesse approfondito quei sintomi senza perdere tempo avrebbe certamente individuato la causa dell’emorragia ormai diffusa a livello retto peritoneale e un intervento chirurgico immediato, pur presentando alti rischi, avrebbe potuto salvare la vita alla signora che invece, secondo quanto denunciato dai parenti, non ebbe l’assistenza adeguata. L’ultima parola spetta ora al giudice che dovrà decidere se richiedere l’archiviazione del caso oppure rinviare a giudizio gli indagati.

 

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