Le situazioni della madre e del padre non sono paragonabili, perché l’interesse della donna a interrompere la gravidanza ai sensi della L. n. 194 del 1978 o a rimanere anonima ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000 non può essere assimilato all’interesse di chi, negando la volontà diretta alla procreazione, pretenda di sottrarsi alla dichiarazione di paternità naturale

Si era rifiutato di sottoporsi al prelievo ematico in un procedimento per il riconoscimento della paternità; il Tribunale di Arezzo aveva ritenuto, così raggiunta la prova, sulla base delle prove testimoniali raccolte nel corso del giudizio e della presunzione del rifiuto, da parte del padre, agli accertamenti ematici disposti nell’ambito di una CTU genetica.

Il ricorrente presentava così ricorso in Cassazione.

Col primo motivo di impugnazione, l’uomo eccepiva l’illegittimità costituzionale dell’art. 269 c.c., per contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’ingiustificata disparità del regime giuridico relativo alla maternità e alla paternità naturali.

Mentre la donna può scegliere di non essere madre abortendo il feto ai sensi della L. n. 194 del 1978 o esercitando, alla nascita del figlio, il proprio diritto di rimanere anonima ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 30, l’uomo non ha diritto di scegliere di non essere padre, perché non ha la possibilità di rimanere anonimo e non può sottrarsi all’azione di cui all’art. 269 c.c..

Ma è proprio così?

I giudici della Cassazione non perdono tempo nel rigettare l’eccezione così esposta, richiamando peraltro, un precedente indirizzo giurisprudenziale (sent. n. 12350 del 18/11/1992, n. 3793 del 15/03/2002 e n. 13880 del 1/06/2017).

Invero, le situazioni della madre e del padre, che secondo il ricorrente sarebbero normativamente discriminate con asserita violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., non sono paragonabili, perché l’interesse della donna a interrompere la gravidanza ai sensi della L. n. 194 del 1978 o a rimanere anonima ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, non può essere assimilato all’interesse di chi, negando la volontà diretta alla procreazione, pretenda di sottrarsi alla dichiarazione di paternità naturale.

Non può pertanto lamentarsi alcuna disparità di trattamento, attesa la ragionevolezza della scelta legislativa di regolare in maniera differenziata situazioni tra loro diverse.

In particolare, circa il riferimento alla normativa sull’interruzione della gravidanza, addotta dal ricorrente quale tertium comparationis, è stato altresì affermato che, in relazione all’art. 269 cod. civ., che attribuisce la paternità naturale in base al mero dato biologico, senza alcun riguardo alla volontà contraria alla procreazione del presunto padre, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., in ragione della disparità di trattamento che ne risulterebbe in danno dell’uomo rispetto alla donna, alla quale la legge 22 maggio 1978, n. 194 attribuisce la responsabilità esclusiva di interrompere la gravidanza ove ne ricorrano le condizioni giustificative, e ciò in quanto le situazioni poste a confronto non sono comparabili, l’interesse della donna alla interruzione della gravidanza non potendo essere assimilato all’interesse di chi, rispetto alla avvenuta nascita del figlio fuori del matrimonio, pretenda di sottrarsi, negando la propria volontà diretta alla procreazione, alla responsabilità di genitore, in contrasto con la tutela che la Costituzione, all’art. 30, riconosce alla filiazione naturale.

Quanto agli accertamenti genetici, il ricorrente lamentava il fatto che i giudici di merito, avessero disposto l’esame genetico non con ispezione corporale ex art. 118 c.p.c., ma con c.t.u., senza l’osservanza delle garanzie che le norme processuali pongono a tutela della persona sottoposta ad ispezione.

Anche siffatta eccezione deve essere dichiarata infondata.

Va osservato che nei giudizi promossi per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale l’esame genetico sul presunto padre si svolge mediante consulenza tecnica c.d. percipiente, ove il consulente nominato dal giudice non ha solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti, ma di accertare i fatti stessi. È necessario e sufficiente, in tal caso, che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche, perché la consulenza costituisca essa stessa fonte oggettiva di prova (Cass. n. 6155 del 13/03/2009, n. 4792 del 26/02/2013, n. del 2017). Nei giudizi in questione tale mezzo istruttorio rappresenta, dati i progressi della scienza biomedica, lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l’acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione naturale, e con esso il giudice accerta l’esistenza o l’inesistenza di incompatibilità genetiche, ossia un fatto biologico di per sé suscettibile di rilevazione solo con l’ausilio di competenze tecniche particolari (Cass. n. 14462 del 29/05/2008). Al contrario, gli artt. 118, 258 e 260 c.p.c., di cui il ricorrente asserisce la violazione, attengono all’ispezione corporale e sono pertanto estranei all’accertamento tecnico in questione, non costituendo il prelievo ematico (al pari del prelievo di saliva dalla mucosa buccale) un’ispezione corporale, ma un mezzo necessario per l’espletamento della consulenza genetica ed ematologica (Cass. n. 8733 del 09/04/2009; n. 13880/17).

La libera valutazione del giudice

Ebbene, la Corte territoriale non ha errato a valorizzare il rifiuto del ricorrente di sottoporsi alla prova genetica, posto che nel giudizio diretto ad ottenere la dichiarazione giudiziale della paternità (o maternità) naturale, in tema di prova, se la volontà di sottoporsi al prelievo ematico per eseguire gli accertamenti sul DNA non è coercibile, nulla tuttavia impedisce al giudice di valutare, in caso di rifiuto, sia pur in sé legittimo, ma privo di adeguata giustificazione, il comportamento della parte, ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ. A tal riguardo è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione di cui all’art. 269, secondo comma, cod. civ., secondo la quale la prova della paternità o maternità naturale può essere data con ogni mezzo, alla luce di un preteso contrasto con il quarto comma dell’art. 30 della Costituzione, secondo il quale “La legge detta i limiti per la ricerca della paternità” (Cass., n. 8059/97). È stato altresì affermato che nel giudizio di disconoscimento della paternità è valutabile, come elemento indiziario di convincimento, non solo il rifiuto della parte di sottoporsi alla disposta prova genetica ed ematologica (il quale è assimilabile al rifiuto di ottemperare all’ordine d’ispezione corporale di cui all’art. 118, 2c., c.p.c.), ma anche la sistematica opposizione avverso l’istanza di detta prova, riconducibile nell’ambito del comportamento processuale di cui all’art. 116, 2c., c.p.c. (Cass., n. 3094/85; n. 6400/80).

 

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