Pubblicata la Sentenza della Corte Costituzionale sulla questione di illegittimità dell’importo minimo della pensione di inabilità
Depositata in Cancelleria il 20 luglio 2020 la tanto attesa Sentenza della Corte Costituzionale, preannunciata da un breve comunicato della Corte stessa del 23 giugno 2020, inerente l’aumento dell’importo minimo della pensione di inabilità per inadeguatezza al minimo vitale.
A un mese di distanza dal comunicato della Corte Costituzionale che preannunziava la decisione di illegittimità costituzionale dell’importo minimo della pensione di inabilità, è stata pubblicata la relativa Sentenza.
E’ necessario, e doveroso, fare dunque chiarezza sulla decisione dei Giudici delle leggi.
La Sezione Lavoro della Corte d’Appello di Torino ha sollevato alla Consulta duplice questione di legittimità costituzionale:
1) dell’art. 12, primo comma, della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5, e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili), «nella parte in cui attribuisce al soggetto totalmente inabile, affetto da gravissima disabilità e privo di ogni residua capacità lavorativa, una pensione di inabilità […] insufficiente a garantire il soddisfacimento delle minime esigenze vitali, in relazione agli artt. 3, 38, comma 1, 10, comma 1, e 117, comma 1, Cost.»;
2) dell’art. 38, comma 4, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)», «nella parte in cui subordina il diritto degli invalidi civili totali, affetti da gravissima disabilità e privi di ogni residua capacità lavorativa, all’incremento previsto dal comma 1 al raggiungimento del requisito anagrafico del 60° anno di età, in relazione agli artt. 3 e 38, comma 1, Cost.».
Nel giudizio torinese intervenivano l’Avvocatura Generale dello Stato e l’INPS ed esponevano plurime eccezioni di inammissibilità delle questioni formulate.
L’Avvocatura dello Stato eccepiva che quanto richiesto dalla rimettente, ovverosia di “intervenire a modificare la misura della pensione di inabilità ovvero ad eliminare il requisito anagrafico per l’applicazione delle maggiorazioni previste dall’art. 38, comma 4, della L. 448/01 esorbiti dal mero controllo di conformità alla Costituzione, invadendo il campo delle scelte e della discrezionalità del legislatore”.
Del medesimo tenore le difese dell’INPS che eccepiva come entrambe le questioni di legittimità sollevate rientrino nella sfera del legislatore e non del Giudice delle Leggi.
La Corte Costituzionale ritiene tali eccezioni non fondate ed evidenzia che la Corte torinese non contesta nell’Ordinanza di rimessione la discrezionalità del legislatore nell’individuazione delle misure necessarie – e, in questo caso, nell’importo della pensione – a tutela dei disabili, bensì contesta, invece, che l’importo pensionistico minimo sia inadeguato ad assicurare al disabile anche il «minimo vitale» e che vada al di là del limite delle garanzie essenziali e insopprimibili dovute a tale categoria di soggetti.
Si dubita, quindi, della legittimità costituzionale della disposizione di cui al primo comma dell’art. 12 della legge n. 118 del 1971, nella parte in cui attribuisce al soggetto totalmente inabile, affetto da gravissima disabilità e privo di ogni residua capacità lavorativa, una pensione di inabilità di importo pari, nell’anno 2018, ad euro 282,55, nell’anno 2019, ad euro 285,66 e, nell’anno 2020, ad euro 286,81.
Conseguentemente, viene di fatto disconosciuto agli inabili al lavoro il diritto ad un mantenimento adeguato, in ragione della misura insufficiente della pensione di inabilità loro spettante, irragionevolmente inferiore rispetto alla misura riconosciuta a titolo di assegno sociale e a titolo di incremento della pensione di invalidità civile per gli ultrasessantenni e, comunque, inidonea a liberare l’inabile dalla condizione di bisogno in cui versa ed a garantirne condizioni di vita almeno dignitose.
Il sospetto di illegittimità della Corte torinese muove, dunque, dalla circostanza che il trattamento pensionistico riconosciuto al soggetto totalmente invalido non è sufficiente, per comune esperienza, a garantire il soddisfacimento dei più elementari bisogni della vita, come alimentarsi, vestirsi e reperire una abitazione».
Le motivazioni della Corte di Torino rimettente, sono condivise dalla Corte Costituzionale dalla precisa, articolata e puntuale pronunzia qui esaminata.
La Corte Costituzionale riconosce che l’importo mensile della pensione di inabilità, di attuali euro 286,81, è palesemente insufficiente ad assicurare agli interessati il minimo vitale e non rispetta il limite del diritto al mantenimento garantito ad ogni cittadino inabile al lavoro dall’art. 38, primo comma, Cost.
“La semplice comparazione con gli importi riconosciuti per altre provvidenze, avvinte da analoga matrice assistenziale e prospettate come grandezze di raffronto, conferma che la misura della pensione di inabilità non è idonea a soddisfare la soglia non già del solo minimo “adeguato” riconosciuto ai lavoratori dall’art. 38, secondo comma, Cost., ma dello stesso minimo vitale per far fronte alle esigenze primarie e minute della quotidianità – ossia alle pure esigenze alimentari – quale nucleo indefettibile di garanzie spettanti agli inabili totali al lavoro”.
Infatti:
- l’assegno sociale per gli ultrasessantasettenni, è pari ad euro 459,83 mensili;
- l’incremento della stessa pensione di inabilità previsto per gli ultrasessantenni, pari attualmente ad euro 651,51 per tredici mensilità;
- la cosiddetta maggiorazione al milione per i titolari di assegno o pensione sociale giunti al settantesimo anno di età, pari sempre per l’anno 2020 ad euro 648,26 per tredici mensilità;
- il reddito di cittadinanza, quale misura assistenziale temporanea, il cui ammontare corrisponde all’attualità ad euro 500,00 mensili, oltre euro 280,00 per eventuali voci accessorie.
Viene anche chiarito che pensione di inabilità civile e indennità di accompagnamento sono due poste di provvidenza distinte e separate in quanto il così detto accompagnamento è funzionalmente diverso rispetto alla prestazione assistenziale connessa all’invalidità e quindi contrasta con il principio di eguaglianza concedere, o meno, una prestazione assistenziale a soggetti che ne siano parimenti bisognevoli, a seconda che fruiscano, oppure no, di provvidenze preordinate ad altri fini.
Ciò evidenziato, il Collegio specifica che la condizione anagrafica (raggiungimento del sessantesimo anno di età) stabilita dalla legge n. 448 del 2001, per la concessione dell’incremento agli invalidi civili totali, sarebbe irragionevole «allorché l’invalido, come nel caso ben prima del compimento dei 60 anni di età, si trovi in ragione delle patologie sofferte in condizioni di gravissima disabilità e privo della benché minima capacità di guadagno».
Irragionevole e discriminatoria è anche la disposizione che concede l’incremento per il solo raggiungimento dei 70 anni di età anche a soggetti esenti da patologie invalidanti, mentre soggetti totalmente inabili fra i 18 e i 59 anni che sono in condizione di grave disabilità percepiscono una pensione di invalidità pari a poco più della metà.
In definitiva, il soggetto totalmente invalido di età inferiore si trova in una situazione di inabilità lavorativa che non è certo meritevole di minor tutela rispetto a quella in cui si troverebbe al compimento del sessantesimo anno di età.
Le minorazioni fisiche dell’invalidità totale non sono diverse nella fascia anagrafica 18-59 anni, rispetto alla fase che consegue al raggiungimento del sessantesimo anno di età, perché la limitazione fisica discende da una condizione patologica e non dal fisiologico e sopravvenuto invecchiamento.
Ad ogni modo, l’assegno riconosciuto agli inabili, ex art. 12 della legge n. 118 del 1971, è del tutto insufficiente a garantire i mezzi necessari per vivere.
“Escludere i titolari di tale assegno, in età compresa dai diciotto ai cinquantanove anni, dalla platea dei soggetti beneficiari del cosiddetto “incremento al milione” innesca un ulteriore profilo di contrasto – in particolare del suo comma 4 – con gli artt. 3 e 38, primo comma, Cost.”
Viene dunque dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 38, comma 4, della legge n. 448 del 2001, nella parte in cui, con riferimento agli invalidi civili totali, dispone che i benefici incrementativi di cui al comma 1 sono concessi «ai soggetti di età pari o superiore a sessanta anni» anziché «ai soggetti di età superiore a diciotto anni».
L’estensione di tale beneficio incrementativo agli invalidi civili è subordinata alle condizioni reddituali di cui alle lettere a) e b) del comma 5 dello stesso art. 38 della legge n. 448 del 2001 e spetta nei limiti di cui alla lettera c) della medesima disposizione.
Ciò comporta che il legislatore deve provvedere tempestivamente alla copertura degli oneri derivanti dalla pronuncia, nel rispetto del vincolo costituzionale dell’equilibrio di bilancio in senso dinamico (sentenze n. 6 del 2019, n. 10 del 2015, n. 40 del 2014, n. 266 del 2013, n. 250 del 2013, n. 213 del 2008).
“Impregiudicata la possibilità per il legislatore di rimodulare, ed eventualmente di coordinare in un quadro di sistema, la disciplina delle misure assistenziali vigenti, purché idonee a garantire agli invalidi civili totali l’effettività dei diritti loro riconosciuti dalla Costituzione. Infatti, l’eliminazione della barriera anagrafica che condiziona l’adeguamento della misura della pensione di inabilità al soddisfacimento delle esigenze primarie di vita, non costituendo una opzione costituzionalmente obbligata, resta soggetta a un diverso apprezzamento da parte del legislatore, purché nel rispetto del principio di proporzionalità (sentenze n. 40 del 2019 e n. 222 del 2018) e dell’effettività dei suddetti diritti.”
Avv. Emanuela Foligno
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