La Cassazione fa il punto in merito alla portabilità e al diritto di recesso da parte dell’utente cui viene negata dal proprio gestore

La Corte di Cassazione, III Sezione civile, nella sentenza n. 17586, pubblicata in data 5 luglio 2018 fa il punto il merito al diritto di recesso per l’utente che si vede negata la portabilità del numero con il nuovo gestore.

La Cassazione, infatti, ricorda che nelle controversie con i gestori di telefonia mobile e fissa, la qualificazione dei contraenti, “consumatore” e “professionista”, è valutazione necessaria ai fini della decisione, ed è esercitabile anche d’ufficio.

A tal proposito, gli Ermellini ricordano che per “consumatore” s’intende la persona fisica che, a prescindere dall’attività imprenditoriale o professionale svolta, stipuli un contratto per soddisfare proprie esigenze di vita quotidiana comunque estranee all’attività esercitata.

Il “professionista”, invece, contraente “forte”, può essere sia la persona fisica che quella giuridica, pubblica o privata, che, al contrario, stipula tale contratto nell’esercizio della sua attività imprenditoriale

La vicenda

Nel caso di specie, un utente della telefonia mobile ha chiamato in giudizio il gestore telefonico al fine di recedere dal contratto di telefonia per grave inadempimento dello stesso, con condanna al risarcimento dei danni subiti.

A sostegno delle proprie pretese, ha evidenziato di aver sottoscritto una proposta di abbonamento per telefono mobile, con richiesta di portabilità della numerazione dal precedente gestore (Mobile Number Portability – MNP).

Ciononostante, detto servizio non era mai stato attivato dal nuovo gestore, con tutte le conseguenze del caso.

Il Giudice di pace di Roma ha accolto la domanda dell’attore, rigettando quella riconvenzionale spiegata dall’operatore telefonico.

Tuttavia, sul gravame da questi interposto, il Tribunale di Roma, ha rigettato la domanda dell’utente, con condanna dello stesso al pagamento delle fatture insolute.

L’utente cui è stata negata la portabilità ha fatto ricorso in cassazione affidandolo a otto motivi.

Tra questi, vi erano la violazione e falsa applicazione degli artt. 33, 1° e 2°comma, lett. B, 34 1° comma e 5, 20,21,22 del Codice del Consumo, oltre che dell’art. 3 della Direttiva CEE 13/1993, lamentando che il Tribunale avrebbe omesso di valutare la sua qualifica di consumatore, ritenuta invece dal primo giudice.

La compagnia telefonica ha chiesto il rigetto del ricorso.

La Corte premette come la controversia ha avuto inizio in epoca anteriore all’entrata in vigore del D.Lvo 206/2005. E questo, pur se all’epoca dei fatti i contratti stipulati dai consumatori godevano della tutela apprestata dall’art. 25 della L. 52/1996, attuativa della Direttiva 93/13/CEE, che ha introdotto gli artt. 1469 bis, ter, quater, quinquies e sexies Cc, poi sostituiti dal menzionato Decreto Legislativo n. 206/2005, il cui contenuto, tuttavia, è sostanzialmente sovrapponibile.

Non solo. La Corte ha rilevato che il Tribunale, nel riformare la sentenza di primo grado, che aveva qualificato l’attore come “consumatore”, ha omesso un aspetto importante.

Vale a dire non ha formulato nessuna valutazione in relazione alla qualità del contraente, pur in presenza di una determinata contestazione.

Scrivono i giudici che “al riguardo, precisato che la qualificazione dei contraenti appare decisiva al fine di individuare la regola del caso concreto, si osserva che questa Corte ha avuto modo di chiarire che “ai fini dell’applicazione della disciplina di cui agli artt. 1469 bis e segg. cod. civ., deve essere considerato “consumatore” la persona fisica che, anche se svolge attività imprenditoriale o professionale, conclude un qualche contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di tale attività, mentre deve essere considerato “professionista” tanto la persona fisica, quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che, invece, utilizza il contratto “nel quadro” della sua attività imprenditoriale o professionale”.

Affinché ricorra la figura del “professionista” non è necessario che il contratto sia posto in essere nell’esercizio dell’attività propria dell’impresa o della professione.

Per i giudici, infatti, è sufficiente che esso venga posto in essere per uno scopo connesso all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale.

Prosegue la Suprema Corte affermando che “poiché la censura espressa nel primo motivo costituisce la necessaria premessa per il corretto inquadramento di tutti gli altri rilievi” la sentenza impugnata appare meritevole di cassazione con rinvio al Tribunale di Roma.

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