La Corte Suprema, con la sentenza n. 5072 del 2016, depositata il 15/03/2016 dalle Sezioni Unite Civili, ha stabilito un risarcimento predeterminato e onnicomprensivo – il cui quantum può oscillare da un minimo di 2,5 a un massimo di 12 mensilità a seconda dell’anzianità di servizio, del comportamento delle parti e degli altri criteri fissati dalle regole sul rapporto di lavoro – a favore del lavoratore precario del pubblico impiego a prescindere dalla dimostrazione concreta del danno.
Le Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza, di cui sopra, risolvono l’intricata questione della pregiudizialità comunitaria sollevata in ordine alle tutele nazionali esistenti contro l’abuso del precariato nel pubblico impiego e in contrasto con l’accordo quadro siglato dalle associazioni sindacali comunitarie ed allegato alla direttiva 1999/70/CE, escludendo di fatto la declaratoria di illegittimità costituzionale rispetto all’art. 117 Cost., che impone di adeguare la disciplina nazionale “ai vincoli derivanti dall’Ordinamento Comunitario”.
Il punto di partenza è dato dall’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001 che, nel regolamentare l’utilizzo di forme contrattuali flessibili nel pubblico impiego, al comma 5 esclude, in caso di violazione della disciplina sull’apposizione del termine, la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, fermo restando il risarcimento del danno; ictu oculi si osserva una disparità di trattamento rispetto al settore privato, conforme alle disposizioni interne attuative della direttiva 1999/70/CE ( dapprima il D. Lgs. n. 368/2001 e da ultimo la L. 183/2010), che prevedono il diritto alla trasformazione contrattuale.
In tema di lotta alle forme precarie di lavoro, con eventuale utilizzo di continui rinnovi e/o proroghe, l’indice di abuso recepito in sede di attuazione della direttiva CE è dato da un rapporto di impiego a termine superiore ai tre anni (stesso limite confermato dal Governo Renzi nella L. 81/2015, ndr Jobs Act); l’art. 32 comma 5 della L. 183/2010 prevede in caso di violazione di tale limite il diritto per il lavoratore ad una indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità, oltre la conversione a tempo indeterminato del rapporto lavorativo.
Tale forma risarcitoria interviene però solo nel settore privato, essendo esclusa nel pubblico impiego dal citato art. 36 D.Lgs. n. 165/2001 la conversione a tempo indeterminato del rapporto flessibile, anche in caso di utilizzo abnorme dell’apposizione del termine al contratto di lavoro; la diversità di disciplina tra pubblico e privato, come spiega la sentenza in questione, non implica però violazione dell’art. 3 della Cost., in primis per la differente modalità di accesso all’impiego: nel settore pubblico la regola è data dal pubblico concorso ex art. 97 Cost., posto a tutela del buon andamento ed imparzialità della PA, regola che resterebbe disattesa in caso di utilizzo del lavoro flessibile ben oltre le esigenze temporanee ed eccezionali che dovrebbero giustificarlo.
In quest’ottica l’art. 36 si pone come lex specialis rispetto all’art. 97 della Cost. ed in quanto tale non abrogata tacitamente dalle disposizioni attuative della direttiva 1999/70/CE, che puniscono l’abuso del ricorso al contratto a termine (superiore ai tre anni) con l’indennizzo e la conversione a tempo indeterminato della tipologia flessibile.
La Suprema Corte, mutatis mutandis, con la sentenza n. 5072/2016 ha ricondotto ad equità le posizioni di precariato nel pubblico impiego rispetto alla disciplina privatistica, riconoscendo in capo al lavoratore pubblico l’indennità tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto ai sensi dell’art. 32 comma 5 D.Lgs. n. 183/2010, senza l’onere della prova a suo carico, ma in maniera del tutto automatica, senza cioè dover dimostrare l’effettivo danno subito (varrebbero altrimenti le regole dell’art. 1223 c.c. in tema di onere probatorio, posto dunque a carico del lavoratore), restando però il divieto di conversione a tempo indeterminato sancito dall’art. 36 D.Lgs. n. 165/2001.
Il criterio di liquidazione del danno forfetario ed onnicomprensivo stabilito dalla Corte può considerarsi una sorta di “penale comunitaria” a carico del datore di lavoro, dovuta ex lege e rispondente agli appelli della Corte di Giustizia Europea (da ultimo sentenza c.d. Mascolo del 26 Novembre 2014, C-22/13) di adozione da parte dello Stato Italiano di misure energiche che possano dissuadere dal ricorso abnorme al lavoro flessibile.
Questo “danno comunitario” dovuto al lavoratore pubblico supplisce a quel deficit di tutela rispetto al lavoratore privato rappresentato dal divieto di conversione a tempo indeterminato, potendo lo stesso provare in sede di liquidazione del danno ( inteso soprattutto come perdita di chance) di aver subito un danno ulteriore rispetto a quello prestabilito, cosa esclusa per il lavoratore privato, al quale però resta il diritto della conversione del rapporto di lavoro.
Da quanto sin’ora dissertato emerge, dunque, che la giurisprudenza italiana è attualmente orientata a trasporre la norma sugli indennizzi relativamente al lavoro privato anche all’impiego pubblico, con la differenza che tale normativa, nel settore privato, viene letta in chiave restrittiva, intesa cioè a contenere le poste risarcitorie, mentre in quello pubblicistico essa viene interpretata “in chiave agevolativa”, poiché solleva il diretto interessato dall’onere della prova, riconoscendo inoltre risarcimenti di danni ulteriori ed automatici al precario storico!
Avv. Lucrezia Longobardi
(Foro di Bologna)
Assistenza Legale
Ti serve un consiglio sulla questione trattata?
Scrivici a redazione@responsabilecivile.it o con whatsapp al numero 3927945623