Il tema è quello della emergenza della precarizzazione dei rapporti di pubblico impiego attraverso l’utilizzo di forme contrattuali illegittime, diverse dal contratto a termine ordinario
Ebbene, nel caso in esame, la P.A. aveva stipulato, in assenza dei presupposti richiesti dalla legge per la reiterazione, successivi contratti formalmente qualificati di collaborazione coordinata e continuativa (ma che di fatto avevano comportato l’instaurazione di un rapporto di pubblico impiego con contratti di lavoro subordinato a tempo determinato) e il lavoratore ne aveva provato l’illegittimità anche sotto il profilo del carattere abusivo della reiterazione del termine.
La vicenda
Per circa nove anni, tra numerosissimi contratti di somministrazione a termine e altre forme contrattuali di lavoro flessibile, la ricorrente aveva prestato servizio presso una ASL della Regione Piemonte; finché un giorno decise di presentare ricorso dinanzi al giudice ordinario per sentire condannare il proprio datore di lavoro al risarcimento di tutti i danni patiti in conseguenza delle reiterate forme di lavoro flessibile, a sua detta ingiustificate.
Già in primo grado, il tribunale adito, aveva rilevato “la carenza di specificità” delle ragioni poste a fondamento dei primi tre contratti di somministrazione a termine relativi al rapporto tra l’azienda pubblica e la dipendente.
Secondo la normativa applicabile (D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 20 e 21 nonché dell’art. 22 e D.Lgs. n. 368 del 2001) è necessaria l’indicazione delle specifiche ragioni poste a base del contratto; specificità che è da intendersi in modo rigoroso in base alla giurisprudenza di legittimità.
Eppure, nella specie, le causali dei primi tre contratti contestati dalla ricorrente, erano da considerarsi assolutamente generiche, si menzionavano “esigenze di lavoro aggiuntivo” “integrazione turni” – ; né era possibile superare tale genericità facendo ricorso agli atti amministrativi a monte della stipulazione dei contratti di somministrazione, visto che in essi non erano individuate le situazioni concrete.
Tali ragioni giustificavano la sentenza di primo grado con la quale era stata condannata la parte pubblica per l’illegittimo utilizzo di quei contratti a termine.
La pronuncia trovava conferma anche da parte dei giudici di secondo grado.
Ciononostante, la lavoratrice non si dichiarava soddisfatta: quei contratti a termine dovevano essere trasformati in un contratto a tempo indeterminato e, inoltre, le doveva essere riconosciuto il diritto al risarcimento di tutti i danni subiti nel corso degli anni.
Quindi il ricorso per Cassazione
I giudici del Supremo Collegio pongono subito l’accento sulla questione sollevata dalla ricorrente: la pretesa trasformazione dei tanti contratti a termine in un contratto a tempo indeterminato.
Ebbene, seppure la normativa del lavoro a tempo determinato alle dipendenze di enti pubblici non economici, sia stata oggetto, negli ultimi anni di continui cambiamenti, essa deve sempre muoversi lungo una direttrice di fondo segnata dall’esigenza costituzionale di conformità al canone espresso dall’art. 97 Cost., u.c., che prescrive che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.
Tale principio è altresì proiezione del principio di eguaglianza in quanto consente a tutti, secondo capacità e merito, di accedere all’impiego pubblico dopo una valutazione per il tramite di una procedura di concorso, ma all’opposto non consente l’accesso in modo stabile al lavoro pubblico per altra via, tanto più se segnata da illegalità (vedi, per tutte: Cass. SU 15 marzo 2016, n. 5072).
Fatte questa premesse, i giudici di legittimità si concentrano su ulteriori punti:
- la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori ad opera delle pubbliche amministrazioni non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni e tale divieto è stato ribadito del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36,
- che anche nella somministrazione a termine è necessario che le ragioni del ricorso alla somministrazione siano specificate nel contratto. Tali ragioni devono essere precisate per iscritto nel contratto e devono consentire di verificare sia se rientrino nella tipologia di ragioni cui è legata la legittimità del contratto sia la loro effettività e quindi la relativa correlazione con la situazione lavorativa del dipendente. In altre parole, non possono essere né generiche, né risolversi in una parafrasi della norma, ma deve esplicitare il collegamento tra la previsione astratta e la situazione concreta
- che nel caso di abuso (in genere essenzialmente in ipotesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem) da parte della Pubblica Amministrazione nell’utilizzo di fattispecie contrattuali di “lavoro flessibile”, deve essere riconosciuto al lavoratore prevista dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32.
- A tale indennità deve aggiungersi il risarcimento dei numerosi gli effetti pregiudizievoli che sono a lui derivati. Tale danno rientra essenzialmente nella categoria del danno da perdita di chance, risarcibile come danno patrimoniale, nella misura in cui l’illegittimo (soprattutto se prolungato) impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro stabile; o comunque un’occupazione migliore;
- che, in tal caso, l’onere probatorio di tale danno grava interamente sul lavoratore e pur potendo operare il regime delle presunzioni semplici (art. 2729 cod. civ.) indubbiamente si tratta di una probatio diabolica.
La decisione della Cassazione
Venendo dunque al caso in esame, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto di dover confermate la sentenza di secondo grado.
Sebbene infatti, la Corte d’appello – facendo corretta applicazione della normativa in materia di somministrazione di lavoro a termine nel lavoro pubblico – avesse rilevato la carenza di specificità delle ragioni poste a fondamento dei primi tre contratti di somministrazione, allo stesso tempo ha escluso la condanna dell’Azienda Sanitaria al risarcimento del danno, proprio per la mancanza di allegazione e prova della sussistenza, in concreto, del danno patito dalla lavoratrice.
La redazione giuridica
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