La condizione essenziale per la configurazione del reato di maltrattamenti in famiglia è la sussistenza di un vincolo matrimoniale, di una condizione di convivenza o di stabili relazioni affettive

Era stato condannato in appello per il reato di maltrattamenti in famiglia in danno della propria convivente. L’uomo, tuttavia, nel ricorrere per cassazione, aveva evidenziato che l’illecito contestato non poteva ritenersi configurato. A suo dire, infatti  era venuto a mancare uno degli elementi essenziali previsti dall’art. 572 c.p. Nello specifico, il fatto era stato commesso nel momento in cui il rapporto di convivenza con la persona offesa era già cessato.

La Suprema Corte, con sentenza n. 31595/2017 non ha ritenuto di condividere tale argomentazione respingendo il ricorso, in quanto infondato. Gli Ermellini hanno chiarito che la condizione essenziale affinché il reato possa considerarsi integrato, è la sussistenza di un vincolo matrimoniale, di una condizione di convivenza o di stabili relazioni affettive. In altri termini, una situazione giuridica o di fatto dalle quali derivi “l’affidamento reciproco e la presenza di vincoli di assistenza, protezione e solidarietà, per effetto del comune sviluppo personale psicologico che in tali comunità si verificano”.

Nel caso esaminato, la Corte territoriale di Bologna aveva dato corretta applicazione a tali principi. Il Giudice d’appello, riformando la sentenza del Tribunale, aveva ritenuto che il rapporto di convivenza al momento del compimento del fatto fosse stato provato.

Le parti, infatti, pur avendo cessato di coabitare da circa due anni, avevano comunque continuato la loro relazione sentimentale.

Più specificamente avevano proseguito la loro frequentazione “nel comune ambito di lavoro e presso le rispettive abitazioni”.

Inoltre, secondo la Cassazione, il Giudice a quo aveva correttamente ritenuto sussistente “un’abituale condotta di maltrattamenti posta in essere dall’imputato”. Lo provavano  i referti medici che erano stati prodotti in corso di causa dalla donna, che attestavano le lesioni subite. Per la  Suprema Corte, il comportamento aggressivo e violento dell’imputato non si risolveva in “occasionali scatti d’ira, causati dalla gelosia”. Il ricorrente era invece solito offendere e umiliare la compagna, ingenerando nella vittima “uno status psicologico caratterizzato da paura e terrore continui, ansia e senso di impotenza”.

 

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