Il tribunale di Mantova ha approvato una rettificazione del sesso dell’atto di nascita di una donna non ancora diventata chirurgicamente uomo

Si è ormai consolidato nella giurisprudenza anche comunitaria, l’orientamento secondo cui non deve ritenersi obbligatorio, ai fini della rettificazione del sesso, l’intervento chirurgico demolitorio o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari.
In particolare è stato evidenziato che l’esclusione del carattere necessario dell’intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica appare il corollario di un’impostazione che – in coerenza con supremi valori costituzionali – rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l’assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere.
È il caso di una donna giunta dinanzi al Tribunale di Mantova, sez. I, per chiedere il riconoscimento del diritto alla rettifica del sesso del proprio atto di nascita, pur senza aver concluso il percorso di mutamento fisico dei propri tratti anatomici primari.
La donna era nata con caratteri biologici, anatomici e genitali di tipo femminile, ma aveva, sin dalla tenera età vissuto la propria identità psico-sessuale come maschile. Nel febbraio 2015 aveva, infatti, intrapreso la terapia con ormoni maschili; e, interpellati medici specialisti del settore, avevano confermato che il genere prevalente all’interno della sua personalità fosse quello maschile (c.d. disforia di genere), e che pertanto, sarebbe stata idonea all’intervento chirurgico di “correzione” fisica dei propri caratteri anatomici escludendo, peraltro, il rischio dell’insorgenza di eventuali patologie di natura psichiatrica.
Secondo il difensore della donna, la domanda è meritevole di accoglimento poiché tutta la giurisprudenza di legittimità e così anche quella costituzionale si è sempre espressa nel senso di consentire la rettificazione dell’atto di nascita pure in assenza di trattamento chirurgico.
Vediamo di cosa si tratta.
L’articolo 1 della legge n. 164 del 1982 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), stabilisce che la rettificazione di sesso si fonda su un accertamento giudiziale passato in giudicato che attribuisca una persona di sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita “a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”.
E così, il successivo art. 3, abrogato per effetto dell’introduzione dell’art. 34 comma 39 d.lgs. n. 150 del 2011 ma attualmente trasfuso, senza variazioni testuali nel quarto comma dell’art. 31 d.lgs. n. 150 del 2011 dispone che il tribunale, autorizza l’adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico solo “quando risulti necessario”.
La legge n. 164 del 1982 non prevede dunque alcun obbligo di “correzione chirurgica”.
Sul punto è intervenuta anche la Corte costituzionale. La legge n. 164 del 1982- ha affermato – si colloca “nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori di libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie e anomale”.(Corte cost., sentenza n. 161 del 1985).
Basta in altre parole, procedere ad un’interpretazione di essa che si fondi sull’esatta collocazione del diritto all’identità di genere all’interno dei diritti inviolabili che compongono il profilo personale e relazione della dignità personale e che contribuiscono allo sviluppo equilibrato della personalità degli individui, mediante un adeguato bilanciamento con l’interesse di natura pubblicistica alla chiarezza nella identificazione dei generi sessuali e delle relazioni giuridiche ma senza ricorrere a trattamenti ingiustificati e discriminatori, pur rimanendo ineludibile un rigoroso accertamento della definitività della scelta sulla base dei criteri desumibili dagli approdi attuali e condivisi dalla scienza medica e psicologica. (FERRARI)
Dello stesso orientamento è anche il Tribunale di Mantova che, richiamando la giurisprudenza della Suprema Corte, ha riconosciuto l’intervento chirurgico nei casi in esame, come uno strumento soltanto eventuale, «di ausilio al fine di garantire, attraverso una tendenziale corrispondenza dei tratti somatici con quelli del sesso di appartenenza, il conseguimento di un pieno benessere psichico e fisico della persona. «In questa prospettiva – aggiunge – va letto anche il riferimento, contenuto nell’art. 31 del d.lgs. n. 150 del 2011, alla eventualità del trattamento medico-chirurgico per l’adeguamento dei caratteri sessuali. In tale disposizione, infatti, lo stesso legislatore ribadisce, a distanza di quasi trenta anni dall’introduzione della legge n. 164 del 1982, di volere lasciare all’apprezzamento del giudice, nell’ambito del procedimento di autorizzazione all’intervento chirurgico, l’effettiva necessità dello stesso, in relazione alle specificità del caso concreto».
Il ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali deve, pertanto, essere autorizzata ma solo in funzione di garanzia del diritto alla salute, ossia laddove lo stesso sia volto a consentire alla persona di raggiungere uno stabile equilibrio psicofisico, in particolare in quei casi nei quali la divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualità sia tale da determinare un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della propria morfologia anatomica.
Cosi il Tribunale di Mantova ha disposto la rettifica dei dati anagrafici dell’istante: «La prevalenza della tutela della salute dell’individuo sulla corrispondenza fra sesso anatomico e sesso anagrafico, porta a ritenere il trattamento chirurgico non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione ma come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico (in tal senso vedasi Corte Cost. 21-10-2015 n. 221)».
È evidente come il percorso emereneutico sopra evidenziato riconosce alla disposizione in esame il ruolo di garanzia del diritto all’identità di genere, come espressione del diritto all’identità personale (art. 2 Cost. E art. 8 della CEDU), e al tempo stesso, di strumento per la piena realizzazione del diritto, dotato anch’esso di copertura costituzionale, alla salute. (FERRARI)

Avv. Sabrina Caporale

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