L’ammissibilità dell’istanza di rimessione in termini richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte, perché cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà

Lo hanno affermato in una recente sentenza (sent. n. 32725/2018) le Sezioni Unite della Cassazione, in relazione ad una vicenda concernente l’istanza di rimessione in termini avanzata da un difensore.

La vicenda origina, dall’istanza presentata da un avvocato, incaricato da un proprio collega di recuperare un credito nei confronti di un cliente.

Senonché il primo veniva sottoposto a procedimento disciplinare dal COA ove era iscritto, per violazione dei canoni comportamentali di cui agli artt. 6 e 48 del codice deontologico forense (d’ora innanzi, CDF), per aver commesso, cioè fatti integranti il reato di falsa dichiarazione a pubblico ufficiale di cui all’art. 495 c.p.

Nonostante i motivi addotti a difesa, ben presto giunse la pronuncia definitiva di condanna disciplinare. Contro la decisione del COA, il ricorrente, proponeva ricorso appellandosi al Consiglio Nazionale Forense, in qualità di organo giudicante di secondo grado, senza tuttavia, esito diverso.

Il ricorso per Cassazione e la decisione

Con un primo motivo di impugnazione, il ricorrente deduceva l’invalidità della decisione, posto che la stessa le era stata notificata circa venti giorni dopo la data del deposito. La notifica, per giunta, era stata fatta presso un suo collega, suo domiciliatario, il quale tuttavia nulla le comunicava a tale riguardo.

Soltanto ad un giorno dalla scadenza del termine di 30 giorni (a decorrere dalla notificazione) per proporre ricorso per Cassazione (come fissato dall’art. 56 c.3 R.D.L. n. 1578 del 1933) la stessa riusciva ad avere materiale disponibilità della decisione del CNF.

Cosicché, a termine ormai scaduto, senza che ancora fosse stato notificato né iscritto a ruolo il ricorso, veniva presentata istanza di rimessione in termini.

La richiesta fu respinta.

il Primo Presidente, con proprio provvedimento, dichiarava infatti, il non luogo a provvedere, individuando nel Collegio della Suprema Corte, investito dell’esame del ricorso eventualmente proposto, l’autorità giudiziale competente a pronunciarsi sulla ricorrenza, o meno, della causa non imputabile atta a giustificare, ex art. 153 c.2 c.p.c., la proposizione della impugnazione benché tardiva.

E cosi in seguito, la ricorrente provvedeva, nuovamente, a notificare il ricorso al Procuratore generale presso la Corte di cassazione e al Consiglio dell’ordine degli Avvocati.

Ma anche in questa sede, la domanda di rimessione in termini, non fu ritenuta meritevole di accoglimento.

Alla luce del secondo comma dell’art. 153 c.p.c., che ha introdotto, per i giudizi iniziati dal 4 luglio 2009 in poi, la generale facoltà per la parte, che dimostri di essere incorsa in decadenze per cause ad essa non imputabile, di chiedere al giudice di essere rimessa in termini, anche in riferimento ai termini perentori (in quanto l’art. 153 c.p.c. disciplina appunto i termini perentori, laddove la previsione precedente, inserita nell’art. 184 bis c.p.c., sembrava far riferimento per la sua collocazione nel capo dedicato all’istruzione della causa, solo alle decadenze dallo svolgimento di attività istruttorie), l’istanza di rimessione in termini riferita ad un termine per proporre impugnazione deve ritenersi ammissibile.

Può aggiungersi che già prima del mutamento normativo intervenuto era peraltro maturato nella giurisprudenza di questa Corte il superamento della posizione volta ad escludere l’utilizzabilità dell’istituto della rimessione in termini in relazione alla facoltà di proporre impugnazioni, regolata da termini perentori (nel senso della inammissibilità della restituzione nel termine per impugnare la sanzione irrogata nel procedimento disciplinare a carico di avvocati, non essendo contemplata dall’ordinamento professionale forense alcuna ipotesi di proroga del termine per impugnare le decisioni in materia disciplinare, v. Cass. n. 17002 del 2006).

Si era pervenuti a ritenere ammissibile l’istanza di rimessione in termini in riferimento alla decadenza dalla facoltà di proporre impugnazione per incolpevole decorso del termine per impugnare alla luce di una lettura costituzionalmente orientata dello stesso art. 184 bis c.p.c., maggiormente rispettosa dei principi costituzionali di effettività del contraddittorio e delle garanzie difensive (v. Cass. n. 177704 del 2010).

L’insegnamento della giurisprudenza di legittimità

Di conseguenza, la Corte ha più volte in precedenza affermato che l’istituto della rimessione in termini, previsto dall’art. 184 bis c.p.c., abrogato dall’art. 46 della legge 18 giugno 2009, n. 69 e sostituito dalla generale previsione di cui all’art. 153, secondo comma, c.p.c., trova applicazione, alla luce dei principi costituzionali di tutela delle garanzie difensive e del giusto processo, non solo con riguardo alla decadenza dai poteri processuali interni al giudizio, ma anche a situazioni esterne al suo svolgimento, quale la decadenza dal diritto di impugnazione (Cass. n. 5946 del 2017; Cass. n. 3277 del 2012).

Ciò premesso quanto all’ammissibilità dell’istanza, va però aggiunto che la rimessione in termini, sia nella norma dettata dall’art. 184-bis c.p.c. che in quella di più ampia portata contenuta nell’art. 153, secondo comma, c.p.c., come novellato dalla l. n. 69 del 2009, richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte, perché cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà (in questo senso, tra le tante, Cass. n. 17729 2018).

Ciò tuttavia è mancato nel ricorso in esame.

Per tali ragioni la Suprema Corte ha ritenuto che l’istanza di rimessione in termini così formulata, pur in astratto ammissibile, è allo stesso tempo infondata, per non essere stata provata la causa giustificativa del legittimo impedimento da parte dell’avvocato ricorrente in giudizio.

 

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