Un ragazzo minorenne provoca la rottura di un dente a un coetaneo il cui padre viene condannato per diffamazione (Cass. pen., sez. V, dep. 9 marzo 2022, n. 8212).

Rottura di un dente a un coetaneo e successivamente il padre di quest’ultimo, nel corso di una conversazione, pronuncia frasi offensive nei confronti del danneggiante che gli costano la denuncia-querela per diffamazione.

Viene respinta la tesi difensiva del padre del danneggiato, mirata a presentare il comportamento dell’uomo come conseguenza dello stato d’ira provocato dai danni subiti dal figlio a seguito dell’azione imprudente tenuta dal coetaneo.

In primo e secondo grado, l’uomo viene condannato per il reato di diffamazione.

In Cassazione l’uomo deduce che il comportamento del danneggiante, il quale, tuffandosi in mare senza assicurarsi che fosse libero da bagnanti, aveva cagionato al figlio la rottura di un dente al suo coetaneo e che il contegno dei genitori dell’agente fosse contrario degli obblighi di sorveglianza loro imposti.

Gli Ermellini ritengono il ricorso inammissibile ed escludono che le espressioni diffamatorie prese in esame siano state pronunciate dall’uomo sotto l’effetto dell’ira determinata dal comportamento irresponsabile del ragazzo per la rottura di un dente al figlio.

Il Tribunale ha escluso che l’imputato potesse giovarsi della causa di non punibilità di cui all’art. 599 c.p., comma 2, per avere pronunciato le espressioni diffamatorie ascrittegli sotto l’effetto dell’ira determinata dal comportamento irresponsabile del ragazzo che rompe un dente al figlio, avendo ritenuto che non vi fossero elementi oggettivi atti a comprovare che lo scontro, verificatosi in mare tra questi e suo figlio, fosse riconducibile ad una condotta colposa del primo, essendo, piuttosto, verisimilmente che l’occorso fosse imputabile all’esuberanza che accompagna le attività ludiche normalmente praticate dai bambini in uno stabilimento balneare: donde, la qualificazione del fatto come ingiusto costituiva la proiezione dell’opinione soggettiva del deducente e come tale inibiva l’applicazione dell’istituto invocato.

Inoltre, sottolinea la Suprema Corte, nulla di decisivo è addotto dalla sentenza, circa la condanna dei genitori del minore parte offesa per il delitto di lesioni colpose, venendo in rilievo non il comportamento del minore stesso, ma quello dei soggetti investiti della sua sorveglianza, in ragione della possibilità che questi, in ragione dell’età, potesse essere coinvolto in attività suscettibili di cagionare un danno ad altri.

Ergo, omissione di sorveglianza che non era stata la causa scatenante dell’ira che aveva indotto l’imputato a pronunciare le espressioni diffamatorie ascrittegli, chiaramente rivolte a stigmatizzare: “il modo di fare irruento e violento del minore”.

IL ricorso viene dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Avv. Emanuela Foligno

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