Sede secondaria di una società estera: deve rispettare legge italiana

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Il Tribunale di Reggio Emilia ha fornito chiarimenti in merito al licenziamento di un dipendente impiegato nella sede secondaria di una società estera

Il Tribunale di Reggio Emilia, Sezione Lavoro, con ordinanza ex art. 1, comma 49, L. 28/6/2012 n. 92, n. 2209/2017 depositata il 17 agosto 2017, si è occupato del licenziamento irrogato ad un lavoratore impiegato in una sede secondaria di una società estera.

I fatti

Un soggetto conviene in giudizio la società presto la quale prestava servizio, con sede nella Repubblica Ceca per impugnare, ai sensi e per gli effetti della L. 92/2012, il licenziamento per GMO dalla stessa irrogatogli.
Il ricorrente assume di avere svolto in favore della datrice di lavoro attività relativa ai processi di produzione presso gli stabilimenti dell’Europa Orientale del Gruppo; più sporadicamente espone di aver lavorato anche in Italia, specie in occasione di fiere o visitando fornitori italiani.
La controversia viene radicata in Italia, avendo il ricorrente evidenziato non solo di essere stato assunto in Italia, ma di essere stato specificato nel contratto di lavoro che la sede era in Italia, e che a quella giurisdizione si sarebbe fatto riferimento tra le parti in caso di contenzioso.
Nel merito il lavoratore censurava il licenziamento comminatagli per violazioni sia di carattere formale che di sostanza.
La società nel costituirsi contestava recisamente la ricostruzione avversaria dei fatti e dei principi di diritto invocati, eccependo in via pregiudiziale carenza di giurisdizione del Giudice italiano in favore di quello ceco.
Risolta la questione della giurisdizione a favore del giudice italiano la controversia è stata riassunta innanzi al Tribunale.

L’accertamento sul rito

Preliminarmente il Tribunale di Reggio Emilia si occupa dell’accertamento sul rito e sulla tutela, reale o obbligatoria, applicabile.
Il Tribunale rammenta che l’art 18, 8^ comma, L. n. 300 del 1970, prevede espressamente che “le disposizioni dei commi dal quarto al settimo si applicano al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro , imprenditore o non imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all’impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti , e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti”, mentre nel caso in esame è pacifico che l’unico lavoratore assunto in Italia dalla multinazionale ceca sia appunto l’attuale ricorrente.
Tra l’altro risulta che il datore di lavoro ha una propria iscrizione all’INPS e all’INAIL e a fini fiscali un proprio codice azienda, elementi tutti che denotano l’esistenza sul territorio italiano di un soggetto giuridico operativo.
In questo caso anche se l’azienda estera deve considerarsi, anche fiscalmente, non dotata di stabile organizzazione produttiva e/o di vendita sul territorio italiano, la stessa si è dotata di un ufficio di rappresentanza ed ha conferito un apposito mandato ad un soggetto residente in Italia perché possa agire in nome e per conto dell’impresa estera stessa, in qualità di rappresentante ai fini previdenziali fissando anche una “legale” presso l’ufficio dello stesso.
Secondo il giudice si è pertanto perfezionata quella “qualsiasi altra sede di attività” necessaria per radicare la giurisdizione in Italia.
Però la circostanza che la giurisdizione sia pacificamente italiana non influisce, tuttavia, sulla legge nazionale applicabile al caso de quo.

Ma come va risolta la questione?

Il Tribunale di Reggio Emilia si affida a quanto stabilito dagli Ermellini nella recente decisione n. 19557 del 30.9.2016 che ha deciso un caso analogo.
La Suprema Corte ritiene che dalla lettura combinata dell’art. 25, legge n. 218/1995 e dell’art. 2508, comma 3, c.c., discende che il requisito dimensionale debba essere considerato esclusivamente con riferimento al territorio nazionale.
La sede secondaria di una società estera non possiede, infatti, una personalità giuridica autonoma rispetto alla casa madre estera, ma assume autonoma rilevanza rispetto all’ordinamento italiano, trovando applicazione le norme concernenti l’esercizio dell’impresa ed il regime di pubblicità a tutela dei terzi che vengono in contatto negoziale.
In particolare, l’art. 2508 c.c. ha costituito per i giudici il riferimento normativo per poter sostenere che la sede secondaria di una società estera è assoggettata alla legge italiana, così come accade per una società costituita nel nostro Paese.
Più specificamente, la Cassazione rileva che, da un punto di vista letterale, i commi 8 e 9, dell’art. 18 rinviano a parametri strettamente nazionali, come l’ambito territoriale ed amministrativo del comune, ovvero la contrattazione collettiva di riferimento.
Anche da un punto di vista teleologico, la tutela reintegratoria non sarebbe giustificata in presenza di entità organizzative e produttive di piccole dimensioni, difficilmente in grado di riassorbire il lavoratore.

Tutela reale o tutela obbligatoria?

Il Tribunale di Reggio Emilia esclude l’applicabilità nel caso de quo della tutela reale, e di conseguenza si può verificare l’esistenza di un licenziamento illegittimo cui applicare d’ufficio la tutela obbligatoria, richiesta che è stata formulata dallo stesso lavoratore in via gradata ai sensi dell’art.8 L.604/66.
E del resto osserva il giudice che la lettera di licenziamento enuncia con assoluta ed insanabile genericità la “soppressione del Suo posto di lavoro in seguito alla riorganizzazione del settore produttivo, per cui la Sua attività di consulente nella produzione di piastrelle non verrà più richiesta.
Al fine di garantire il maggior grado di efficienza, le attività oggetto del Suo contratto, finalizzate al miglioramento della qualità della produzione e razionalizzazione costi, verranno direttamente svolte in futuro dai team direttivi preposti alla produzione delle singole società locali”.
Quanto all’obbligo di repechase la lettera conclude: “Ci è inoltre impossibile reimpiegarla in altro ambito lavorativo nella nostra società”.

L’obbligo motivazionale

Secondo il Tribunale l’obbligo motivazionale da parte del datore di lavoro prescritto ex lege non sembra essere stato minimamente assolto, atteso che la lettera di licenziamento si limita, in modo del tutto acritico, a riprodurre una mera formula di stile esclusivamente descrittiva del licenziamento per GMO, senza riempirla di alcuno specifico contenuto e ciò è sufficiente perché il licenziamento intimato assuma i connotati di illegittimità.

L’obbligo di repechase

Per ciò che attiene poi l’obbligo di repechase, posto che è la stessa azienda a spiegare che il posto rivestito dal ricorrente sarà occupato non già dal superiore ma dai team direttivi preposti alla produzione delle singole società locali, non vi è traccia di una difesa tecnica più articolata che convinca che la società che consta di oltre 13mila dipendenti in Europa e comunque circa 1900 nello stabilimento di Pilsen, non abbia potuto collocare il lavoratore in una mansione paritaria o anche di livello inferiore a quella ricoperta al momento dello scioglimento del rapporto.
Il Tribunale conclude osservando che i numerosi indizi offerti dallo stesso ricorrente fanno ritenere esistente un gruppo societario di dimensioni assai rilevanti e respiro certamente europeo, forse mondiale e la società datrice di lavoro non ha fornito prova alcuna prova dell’assolto obbligo di repechase.
Per le su esposte ragioni il Tribunale di Reggio Emilia, visto l’art.1 co. 49 L. 28/6/2012 n.92 ha accolto il ricorso, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento irrogato al ricorrente e di conseguenza ha condannato l’azienda convenuta, in forza di quanto disposto dall’art.8 L.604/66 alla riassunzione in servizio ovvero al risarcimento del danno in favore del ricorrente
 

Avv. Maria Teresa De Luca

 
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