Nella separazione giudiziale, d’ora in poi, dovrà essere escluso il riconoscimento dell’assegno di mantenimento al coniuge che già risulti economicamente autosufficiente

Nella separazione giudiziale “(…) al fine del riconoscimento di un assegno di mantenimento a favore del coniuge e, eventualmente, nella determinazione del suo ammontare non va applicato il principio dell’autoresponsabilità economica che grava su entrambi i genitori, (…) e neppure quello tradizionale del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

Secondo il più recente orientamento della Corte di Cassazione espresso, con la sentenza n. 16190/2017, al fine del riconoscimento di un assegno di mantenimento a favore del coniuge si deve avere riguardo principalmente alla complessiva situazione patrimoniale e reddituale delle parti. Occorre, in altre parole, verificare se la separazione realizzi a danno di un coniuge una sperequazione economica rispetto all’altro, tale da determinare un apprezzabile sconvolgimento nelle pregresse e consolidate abitudini di vita.

La storia è quella di due coniugi uniti in matrimonio dal 1997; matrimonio dal quale erano nate le due figlie, una maggiorenne, l’altra anch’essa prossima alla maggiore età.

All’epoca della separazione giudiziale si convenne per l’affidamento congiunto delle due figlie, sebbene l’una fosse convivente con la madre, l’altra col padre. Nella stessa sentenza si decise che quest’ultimo dovesse corrispondere alla moglie un contributo di mantenimento pari ad euro 1.500,00 mensili ed euro 800,00 mensili per ciascuna delle due figlie.

Sennonché con ricorso depositato dinanzi al Tribunale di Trieste l’ex coniuge avanzò la richiesta di rivalutazione delle predette condizioni della separazione giudiziale, alla luce, anche, delle modificate condizioni economiche, reddituali e patrimoniali della donna, nonché il rigetto definitivo della richiesta da parte di quest’ultima di un assegno di mantenimento in proprio favore.

Il Tribunale di Trieste, aderendo ai principi già espressi dalla sentenza della Cass. n. 16190/2017, ha accolto l’istanza del ricorrente, dopo aver accertato l’insussistenza del diritto della donna di ottenere il predetto assegno.

La decisione è fondata sul rilievo che quest’ultima, esercita la professione di psicologa – psicoterapeuta; professione che le ha determinato un incremento dei propri ricavi rispetto agli anni precedenti e, dal fatto che la stessa risulta unica titolare di svariati appartamenti e immobili di diversa natura, e di numerosi rapporti bancari accesi presso diversi istituti di credito.

La delineata situazione economica – afferma il Tribunale– porta a ritenere che la separazione personale dal proprio coniuge non comporti alcun cambiamento radicale nella sua vita quotidiana, potendo la ricorrente contare ancora su delle risorse reddituali e patrimoniali tali da consentirle di mantenere le stesse abitudini di vita godute in costanza di matrimonio. Ne consegue che quest’ultimo non sarà più tenuto a corrispondere in suo favore il predetto assegno di mantenimento; non solo ma dovrà altresì ridursi l’importo del contributo di mantenimento in favore delle figlie in misura proporzionale alle capacità patrimoniali e reddituali delle parti.

Una innegabile rottura rispetto al passato!

L’attuale pronuncia del Tribunale di Trieste, aderendo al più recente orientamento già espresso con la sentenza n. 16190/2017, supera decenni di giurisprudenza in materia, archiviando i due criteri tuttora maggiormente utilizzati dai giudici di merito per la valutazione del contributo divorzile.

Già con la sentenza n. 11504/2017 la Cassazione, aveva dato vita ad una svolta epocale in materia, mandando in pensione il vecchio criterio del “tenore di vita”, per aprirsi ad un nuovo orientamento, più aderente ai mutamenti socio-economici e culturali del nostro Paese. Secondo il primo criterio, infatti, il giudice di merito, al fine del calcolo dell’assegno di mantenimento, avrebbe anzitutto dovuto, accertare lo stile di vita dei due coniugi durante la convivenza matrimoniale, (inteso quale disponibilità di mezzi e di spesa), e poi verificare se i mezzi economici a disposizione del coniuge richiedente gli permettessero di conservare detto tenore di vita.

Con quest’ultimo orientamento invece, i giudici erano tenuti ad eseguire una doppia valutazione, l’una indipendente dall’altra: la prima diretta ad accertare, in astratto, l’esistenza del diritto all’assegno, con riferimento all’autosufficienza del coniuge richiedente – intesa quale disponibilità dei mezzi economici necessari per far fronte alle proprie esigenze, ovvero alla possibilità di procurarseli oggettivamente (tenuto conto del possesso di redditi personali, della capacità lavorativa, della disponibilità di una casa di abitazione, ecc…); la seconda conseguente alla prima e diretta a determinare l’importo dell’assegno che a sua volta, avrebbe dovuto essere informato ai criteri indicati nell’ art. 5, comma 6°, L. 898/1970, (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio, reddito di entrambi, durata del matrimonio).

Ma oggi ci si spinge ben oltre: Al fine del riconoscimento di un assegno di mantenimento a favore del coniuge si deve avere riguardo principalmente alla complessiva situazione patrimoniale e reddituale delle parti. Occorre, cioè, verificare se la separazione realizzi a danno di un coniuge una sperequazione economica rispetto all’altro, tale da determinare un apprezzabile sconvolgimento nelle pregresse e consolidate abitudini di vita.

Resta comunque, fermo il principio per cui d’ora in poi dovrà essere escluso il riconoscimento dell’assegno di mantenimento al coniuge che già risulti economicamente autosufficiente, in quanto in caso contrario ciò provocherebbe un suo indebito arricchimento, giustificato solamente dalla preesistenza di un matrimonio ormai estinto (BLENGIO).

Avv. Sabrina Caporale

 

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