Per interpretare gli studi di settore i numeri non bastano. E’ indispensabile valutare la singola situazione economica nel periodo di riferimento ed in generale la storia commerciale del contribuente, il mercato e il settore di operatività

La vicenda

Gli studi di settore avevano mostrato una “grave incongruenza” tra i ricavi dichiarati dal contribuente e quelli accertati in base agli studi di settore.
L’Agenzia delle entrate, utilizzando gli studi di settore, ai sensi dell’art. 62 sexies d.l. n. 331/1993 aveva accertato nei confronti di una società esercente attività di vendita di ricambi ed accessori di telefonia, uno scostamento tra l’ammontare dei ricavi dichiarati nel Modello Unico 2005, per l’anno precedente, e quello derivante dalla applicazione degli studi di settore.
Con ricorso, il titolare dell’attività commerciale impugnava detto provvedimento ma senza successo perché la CTP lo rigettava con sentenza che veniva confermata anche dalla CTR, la quale rilevava che le eccezioni poste dall’appellante non erano sufficienti a modificare i risultati degli studi di settore, e che la contribuente non aveva assolto all’onere della prova in ordine a quella “grave incongruenza”.

Il ricorso per Cassazione

Con un unico motivo di impugnazione la società ricorrente denunciava la violazione e falsa applicazione della legge in materia di studi di settore. Nella specie, la CTR avrebbe errato nel non aver tenuto conto del fatto che i modelli di studi di settore erano, in realtà, inapplicabili al caso concreto e alle caratteristiche specifiche dell’attività svolta, specie in relazione alla percentuale di vendita verso i dettaglianti (del 70%), mentre negli studi di settori tale tipologia di vendita si attestava al 30%.
Inoltre per la ricorrente, le asserite “gravi incongruenze” in realtà erano insussistenti, in quanto il volume di affari dichiarato, ai fini IVA era di 3.789.335,00 euro, mentre il volume di affari accertato in base ai predetti studi di settore era di € 3.966.760,00, cioè con una differenza del 4,68%.
Anche la differenza degli importi ai fini Ires era del 1,90% e del 4,74% nella differenza tra ricavi dichiarati e ricavo puntuale.
Il motivo di ricorso così formulato ha colto nel segno, perché i giudici della Cassazione hanno ricordato che l’art.1, comma 23 della legge n. 296/2006, è entrata in vigore a partire dall’1 gennaio 2007. Per tanto, l’accertamento induttivo fondato sul mero divario, a prescindere dalla sua gravità, tra quanto dichiarato dal contribuente e quanto risultante dagli studi di settore è legittimo solo a decorrere dal 1 gennaio 2007, in base all’art. 1, comma 23 della citata legge che non ha portata retroattiva, trattandosi di norma innovativa e non interpretativa.
Ma è stato precisato che ai fini della applicabilità della novella del 2006, deve tenersi conto della data di notifica dell’avviso di accertamento e non dell’anno di imposta, eventualmente anteriore al 2007.
Ebbene, nel caso in esame, l’avviso di accertamento era stato notificato al contribuente nel dicembre del 2009, anche se riferito all’anno 2004. Doveva perciò farsi applicazione della normativa citata.

Tuttavia, l’orientamento tradizionale in materia di studi di settore è tutt’oggi messo in discussione dalla giurisprudenza eurocomunitaria.

In particolare, il riferimento normativo è la direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, nonché ai principi di neutralità fiscale e di proporzionalità, i quali devono essere interpretati nel senso “che consentano all’Amministrazione finanziaria, a fronte di “gravi divergenze” tra i redditi dichiarati e i redditi stimati sulla base di studi di settore, di ricorrere ad un metodo induttivo, basato sugli studi di settore stessi, al fine di accertare il volume d’affari realizzato dal contribuente e procedere, di conseguenza, a rettifica fiscale con imposizione di una maggiorazione sul valore aggiunto (IVA), a condizione che tale normativa e la sua applicazione permettano al contribuente stesso, nel rispetto dei principi di neutralità fiscale, di proporzionalità, nonché del diritto di difesa, di contestare sulla base di tutte le prove contrarie di cui disponga, le risultanze derivanti da tale metodo e si esercitare il proprio diritto alla detrazione di imposta ai sensi delle disposizione contenute nel titolo X della direttiva 2006/112, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare (Corte di Giustizia UE, 648/2018)”.
Ebbene, per i giudici della Cassazione, tale pronuncia, sebbene riferita espressamente all’Iva, detta un principio applicabile a tutte le imposte dirette.

Come rispondere dunque alla società ricorrente per cassazione?

Di recente la giurisprudenza di legittimità ha qualificato come “scostamenti solo lievi” e quindi inidonei alla rettifica dei redditi, quelli del 4,23%, del 7%, del 10% e anche del 21% , con la precisazione che la nozione di “grave incongruenza” non può essere ricavata avendo riguardo in via assoluta a precise soglie quantitative fisse di scostamento, essendo invece, la nozione di indici di natura relativa da adattare a plurimi fattori propri della singola situazione economica, del periodo di riferimento ed in generale della stessa storia commerciale del contribuente destinatario dell’accertamento oltre che del mercato e del settore di operatività.
Nella specie, come evidenziato dal ricorrente, lo scostamento tra ricavi dichiarati dalla società e quelli calcolati in base agli studi di settore era molto modesto, di appena il 4,68% ai fini Iva, dell’1,90% ai fini Ires e Irap e del 7,74% tenendo conto del ricavo “puntuale”.
Insomma per i giudici della Cassazione non si era di fronte ad una divergenza significativa tale da giustificare l’emissione dell’avviso di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate.
Per tali motivi la sentenza impugnata è stata cassata in favore del contribuente.

La redazione giuridica

 
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