Quando il danno di cui si chiede il risarcimento sia derivato da una trasfusione con sangue infetto, l’individuazione dell’exordium praescriptionis deve avvenire osservando tre regole applicative

La vicenda

Nel 2010 la ricorrente convenne dinanzi al Tribunale di Napoli il Ministero della Salute, chiedendone la condanna al risarcimento del danno patito in conseguenza di una infezione da virus HCV, contratta in seguito ad ‘una emotrasfusione cui si era sottoposta.

Mentre in primo grado, l’adito Tribunale accolse la domanda, la Corte d’appello di Napoli la rigettò, in accoglimento dell’eccezione di prescrizione sollevata dall’amministrazione convenuta.

La Corte d’appello ritenne, infatti, che il termine prescrizionale da applicare fosse quello quinquennale; che dovesse applicarsi dal momento in cui la vittima, con l’ordinaria diligenza, si accorse o si sarebbe potuta accorgere dell’esistenza del danno e della sua derivazione causale dalla trasfusione; e che tale consapevolezza maturò allorché le venne diagnosticata la malattia dell’epatite “C”.

In quel momento “in assenza di altri fattori di rischio, la vittima ebbe modo di avvedersi che la propria malattia costituiva una conseguenza della condotta del Ministero convenuto”.

La sentenza d’appello è stata, infine, impugnata per cassazione e decisa dalla Terza Sezione Civile con la sentenza n. 17421/2019 in commento.

La ricorrente lamentava l’errata individuazione dell’exordium praescriptionis del diritto al risarcimento del danno nel momento in cui le venne diagnosticata l’eptite C, dovendosi piuttosto ritenere che “il diritto al risarcimento del danno da contagio postrasfusionale inizia a prescriversi non dal momento in cui la vittima scopra di essere malata, ma dal momento in cui viene informata che la malattia è stata causata dalla trasfusione”.

Ebbene nel caso di specie, dopo che le fu diagnosticata la malattia ella poteva avere solo il sospetto di quale fosse la reale causa del contagio, tant’è che inoltrò la domanda di indennizzo ex lege n. 210 del 1992; e ne ebbe la certezza solo quando la competente commissione medica accolse la suddetta domanda.

Lamentava inoltre, l’inversione dell’onere della prova, dal momento che la corte territoriale aveva esonerato il Ministero, che aveva eccepito la prescrizione, dall’onere di provare il momento esatto dell’exordium praescriptionis.

Le regole applicative per l’individuazione dell’exordium praescriptionis

La Corte di Cassazione ha più volte affermato che “il diritto al risarcimento di danni alla salute lungolatenti o ad esordio occulto (come nel caso di contagio o di patologie silenti) inizia a prescriversi dal momento in cui il danneggiato, con la diligenza esigibile non da lui, ma dall’uomo medio, possa avvedersi sia di essere malato, sia che la causa della malattia fu la condotta illecita di un terzo (Sez. U, Sentenza n. 576 del 11/01/2008, Rv. 600901 – 01).

La Terza Sezione Civile ha pertanto, affermato che quando il danno di cui si chiede il risarcimento sia derivato da una trasfusione con sangue infetto, l’individuazione dell’exordium praescriptionis in base al principio appena ricordato deve avvenire osservando tre regole applicative.

La prima regola è che quando la persona contagiata da emotrasfusione presenti la domanda amministrativa di concessione dell’indennizzo previsto dalla L. 25 febbraio 1992, n. 210, dimostra per ciò solo di essere consapevole sia della sua malattia, sia della causa di essa.
Pertanto tale consapevolezza deve presumersi in capo alla vittima, ex art. 2727 c.c., almeno dal momento di presentazione della suddetta domanda.

La seconda regola è che, una volta dimostrata dalla vittima la data di presentazione della domanda amministrativa di concessione dell’indennizzo ex lege n. 210 del 1992, è ribaltato sulla parte che si oppone alla domanda di risarcimento l’onere di provare che il danneggiato avesse acquisito la consapevolezza dell’esistenza del contagio, e della sua derivazione causale dalla trasfusione, già prima dell’inoltro della suddetta domanda amministrativa di indennizzo.

Tale prova, ovviamente, potrà essere fornita con ogni mezzo, ivi comprese le presunzioni semplici, alle condizioni e nei limiti stabiliti dagli artt. 2727 e 2729 c.c..

La terza regola è che la prova presuntiva della previa conoscenza o conoscibilità, in capo alla vittima, della malattia e delle sue cause, non può mai ridursi ad una mera congettura od illazione. La prova presuntiva, infatti, è una deduzione logica; si deve fondare su fatti certi; si deve dedurre da questi sulla base di massime d’esperienza o dell’id quod plerumque accidit.

Ebbene a detta degli Ermellini, la seconda e la terza delle citate regole, non risultavano rispettate dalla sentenza impugnata.

Nel caso di specie, infatti, una volta dimostrato dalla ricorrente  di avere proposto la domanda amministrativa di indennizzo nel 2009, spettava al Ministero della salute dimostrare la pregressa conoscenza o conoscibilità, in capo alla danneggiata, della reale causa del contagio.

La Corte d’appello aveva ritenuto che tale prova fosse stata fornita dal Ministero in via presuntiva, ed aveva ritenuto di poter desumere il fatto ignoto della conoscenza o conoscibilità della causa della malattia, in capo alla danneggiata, da tre fatti noti:(a) il fatto che la ricorrente avesse scoperto di essere ammalata di epatite, ed aveva sin d’allora iniziato a curarsi;(b) che la stessa non aveva allegato, nè dimostrato, di essere esposta ad altri fattori di rischio, teoricamente pensabili, quali cause del contagio ulteriori e diverse rispetto alla trasfusione; (c)che al momento in cui le fu diagnosticata la malattia, aveva “probabilmente acquisito dai sanitari” le necessarie informazioni sulla genesi della malattia.

Ma per i giudici della Terza Sezioni Civile tali argomentazioni, non sono altro che mere congetture, o ipotesi.

Per altro verso, la Corte d’appello aveva violato il divieto di ricorso alla praesumptio de praesumpto.

Le presunzioni semplici di cui all’art. 2727 c.c., infatti, sono le conseguenze che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto. Di conseguenza, gli elementi che costituiscono la premessa del ragionamento presuntivo devono avere il carattere della certezza e della concretezza. Non è possibile, perciò, considerare come “fatto noto” una mera presunzione, per poi inferirne un’ulteriore presunzione.

Al contrario, la sentenza impugnata non risultava rispettosa di tale principio, nella parte in cui dal fatto noto che la odierna ricorrente avesse scoperto la malattia, aveva desunto il fatto ignorato, che i sanitari “probabilmente” l’avessero informata sulla eziogenesi della malattia.

Per tutti questi motivi, la decisione impugnata è stata cassata con rinvio al giudice di merito che dovrà ora, attenersi ai seguenti principi di diritto:

(a) “in tema di risarcimento del danno alla salute causato da emotrasfusione con sangue infetto, ed ai fini dell’individuazione dell’exordium praescriptionis, una volta dimostrata dalla vittima la data di presentazione della domanda amministrativa di erogazione dell’indennizzo previsto dalla L. n. 210 del 1992, spetta alla controparte dimostrare, anche per mezzo di presunzioni semplici, che già prima di quella data il danneggiato conosceva o poteva conoscere, con l’ordinaria diligenza, sia l’esistenza della malattia, sia la sua riconducibilità causale alla trasfusione;
(b) in tema di prova presuntiva, il fatto noto dal quale è consentito al giudice risalire al fatto ignorato deve consistere in una circostanza obiettivamente certa, e non in una ipotesi o congettura, pena la violazione del divieto di ricorso alle praesumptiones de praesumpto.

La redazione giuridica

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