Anche il silenzio maliziosamente serbato da parte di chi ha il dovere di informare l’altro contraente su determinate caratteristiche dell’affare può integrare il reato di truffa

La truffa on-line

L’imputato era stato tratto a giudizio per rispondere del reato di truffa previsto dall’art.640 c.p., commesso ai danni della persona offesa.

Da quanto accertato, quest’ultima aveva sporto querela presso la locale stazione dei Carabinieri rappresentando che, nel mese di marzo del 2016 collegandosi ad un sito di vendite on-line, notava l’annuncio avente ad oggetto la vendita di un telefono cellulare, al prezzo di Euro 400,00; decideva, visto l’ottimo prezzo, di contattare l’inserzionista al numero di cellulare reso disponibile sul sito; rispondeva una donna che gli chiedeva di effettuare la ricarica entro le ore 13.00, così da consentirle di effettuare la spedizione del telefono nella stessa giornata. Nell’ambito della conversazione telefonica la donna, riconfermava il prezzo di 400,00 euro e comunicava all’acquirente che l’avrebbe ricontattato tramite whatsapp, cosa che effettivamente accadde, fornendo in quello stesso momento il numero della Postepay intestata all’imputato e il codice fiscale della stesso.

La venditrice confermava che una volta effettuata la ricarica, avrebbe spedito il pacco, sicché dopo aver effettuato la ricarica, l’acquirente spediva tramite whatsapp la fotografia della ricevuta attestante l’avvenuto versamento. Successivamente provava a contattare tramite chiamate e messaggi la venditrice al numero indicato e precedentemente contattato, che suonava regolarmente, senza ottenere però alcuna risposta. La venditrice si era resa irreperibile; egli dunque, non ricevendo alcun pacco, decideva di sporgere denuncia.

Il Tribunale di Taranto (Prima Sezione, n. 212/2020) dinanzi al quale si è celebrato il processo di primo grado ha affermato la responsabilità penale dell’imputato per il reato a lui ascritto.

In punto di diritto, è stato osservato che l’iter formativo del delitto di truffa è incentrato su un rapporto interattivo tra il reo e la vittima che si snoda attraverso una serie concatenata di momenti eziologici che, per il tramite degli artifici e dei raggiri, arrivano all’induzione in errore e, per l’effetto, all’atto di disposizione patrimoniale utile a produrre contestualmente la verificazione del danno per la vittima e del profitto per l’autore del reato. Il nucleo centrale della condotta incriminata risiede, pertanto, nel porre in essere artifici e raggiri, tali da far apparire come vera una situazione non riscontrabile nella realtà o a produrre un falso convincimento nella vittima.

La giurisprudenza ha da tempo accolto un’interpretazione estensiva delle nozioni di artificio e raggiro, ricomprendendovi anche la semplice menzogna o il silenzio. Ed invero, il mendacio può integrare l’artifizio o il raggiro allorquando si presenti in una forma idonea a suggestionare e convincere la persona offesa di una situazione che non trova riscontro nella realtà (al riguardo Cass. Sez. con la sentenza n. 42719 del 02/09/2010 ha affermato che “integra l’elemento costitutivo del reato di truffa anche la sola menzogna, costituendo una tipica forma di raggiro”).

Del pari, anche il silenzio maliziosamente serbato da parte di chi ha il dovere di informare l’altro contraente su determinate caratteristiche dell’affare può integrare il reato di truffa.

Ai fini della sussistenza del reato, l’idoneità dell’artificio e del raggiro deve essere valutata in concreto, con riferimento diretto alla particolare situazione in cui è avvenuto il fatto ed alle modalità esecutive dello stesso; tale idoneità non è esclusa dall’esistenza di preventivi controlli da parte della vittima, né dalla sua scarsa diligenza nell’eseguirli, quando, in concreto, esista un artificio o un raggiro posto in essere dall’agente e si accerti che tra di esso e l’errore in cui la parte offesa è caduta sussista un preciso nesso di causalità.

È stato infatti evidenziato come l’elemento materiale del reato di truffa, sia che abbia ad oggetto una condotta attiva, sia che si esplichi in una reticenza, deve essere preordinata a perpetrare l’inganno e, in ogni caso, ad occultare la verità.

Quanto al caso in esame, non vi erano dubbi che l’imputato fosse (cor)responsabile della condotta contestata, avendo egli agito in concorso con la donna (l’inserzionista) con cui la persona offesa aveva avuto diretti contatti; ed inoltre, la carta postepay, sulla quale era stato effettuato l’accredito di 400 euro, risultava a lui intestata. A tal proposito non risultavano denunzie di smarrimento, o di indebito utilizzo o di falsità della carta.

L’elemento oggettivo del reato

Per queste ragioni il Tribunale di Taranto ha ritenuto che l’imputato, al momento dell’inserzione, avesse la piena disponibilità della carta e che avesse coscientemente e volontariamente partecipato alla condotta truffaldina ai danni della persona offesa. A tal proposito è stata ritenuta priva di rilievo la circostanza che nel corso della conversazione telefonica fosse stata una donna ad intrattenere i rapporti col malcapitato “atteso che – salvo ipotesi di furti della carta postepay, come detto non denunciati – l’ingiusto profitto della truffa era certamente pervenuto nella disponibilità dell’imputato”.

Invero, secondo massime di comune esperienza, i soggetti che pongono in essere tali condotte truffaldine, adottano diversi sistemi per non essere facilmente rintracciabili; nel caso in esame, la scelta di far contattare l’acquirente da un soggetto diverso dal titolare della carta postepay.

In altre parole, l’imputato con la propria condotta, ovvero quella di rendere disponibile la carta postepay a lui intestata per ottenere il predetto ingiusto profitto, aveva partecipato ad una condotta di artifici e raggiri posta in essere direttamente dall’inserzionista agevolando l’integrazione dell’elemento oggettivo del reato di truffa e partecipando con coscienza e volontà ad ingannare la vittima, determinandola a disporre del proprio patrimonio conseguendo così un ingiusto profitto.

Il giudice pugliese ha infatti riconosciuto in capo all’imputato anche l’elemento soggettivo (il dolo generico) della norma penale.

Il fatto che al versamento del corrispettivo non avesse fatto seguito la consegna del bene compravenduto, con conseguente irreperibilità del venditore, evidenziava sintomaticamente la presenza del dolo iniziale del reato, da ravvisarsi nella volontà di non adempiere all’esecuzione dell’affare sin dal momento dell’offerta on-line. Altri elementi sintomatici dell’elemento soggettivo del reato erano stati individuati nel vantaggioso prezzo di vendita, nella falsa dichiarazione sull’attività svolta dalla venditrice che aveva contribuito ad affrettare l’acquisto del malcapitato acquirente e ad indurlo alla disposizione patrimoniale entro brevissimi tempi, ed infine nel fatto di aver agito in concorso così rendendo più difficile la sua successiva identificazione.

In un caso analogo a quello in esame, il Supremo Collegio (sentenza n. 43660 del 2016) ha affermato che “integra il reato di truffa contrattuale la mancata consegna della merce acquistata e pagata, nel caso in cui siano stati indicati un “prezzo conveniente” di vendita sul “web” e un falso luogo di residenza del venditore, posto che tale circostanza, rendendo difficile il rintraccio, evidenzia sintomaticamente la presenza del dolo iniziale del reato, da ravvisarsi nella volontà di non adempiere all’esecuzione del contratto sin dal momento dell’offerta on-line“.

La redazione giuridica

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