La violenza privata si configura quando un soggetto fa ricorso alla violenza per costringere qualcuno a fare o non fare qualcosa

Aveva tolto, con violenza, la scala che era servita ad un soggetto per salire sul tetto, costringendolo a richiedere l’intervento della Polizia. I Giudici di merito, sia in primo che in secondo grado, avevano condiviso la decisione di condannare l’imputato per il reato di ‘violenza privata’.
La vittima, che su richiesta di una condomina era intento a ripulire un camino, era rimasto in cima all’immobile per circa 40 minuti, fino all’arrivo delle forze dell’ordine, ma secondo il condannato, rivoltosi alla Corte di Cassazione per ottenere l’annullamento della condanna, la condotta che gli veniva contestata non poteva essere considerata “violenza privata” ma, al più, poteva integrare il reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni”, ai sensi dell’articolo 393 del codice penale. A suo dire, infatti, il gesto era stato dettato dal fatto che l’uomo era salito sul tetto di uno stabile di sua proprietà, senza autorizzazione.
La Suprema Corte, tuttavia, con la sentenza n. 23391/2017, ha ritenuto infondate le argomentazioni proposte, rigettando il ricorso. Per i Giudici di Piazza Cavour, infatti, il reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni” si distingue da quello di “violenza privata” solo dal punto di vista delle intenzioni.
Nel primo caso, infatti, il soggetto deve agire al fine di esercitare un proprio diritto; non è necessario che il preteso diritto sussista realmente ma è sufficiente che il soggetto ritenga ragionevolmente che il medesimo esista. La violenza privata, invece, si configura semplicemente quando un soggetto si limita a far ricorso alla violenza per costringere qualcuno a fare o non fare qualcosa.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, l’imputato non aveva chiarito quale fosse la relazione tra il diritto vantato e la condotta tenuta. Secondo gli Ermellini, se avesse agito al fine di esercitare il proprio diritto di proprietà, sarebbe stata comprensibile un’attività diretta ad impedire alla vittima di salire sul tetto, ma non un’azione finalizzata a impedirgli di scendervi, costringendolo, in tal modo, a rimanere in un posto in cui non aveva diritto di salire e di stare.
La Corte d’appello aveva quindi correttamente escluso l’integrazione degli estremi del reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni”, in quanto nessun diritto dell’imputato era stato posto in pericolo. La vittima, infatti, era salita sul tetto ‘pacificamente’, su richiesta di una condomina dello stabile, “in pieno giorno, per effettuare lavori di pulizia”, e non per violare la proprietà altrui.

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