Accolto il ricorso di un uomo, accusato di violenza sessuale, che eccepiva l’assenza di elementi probatori sicuri in ordine alla assunzione del sonnifero e a quella inerente la quantità con cui era assunto

Era stato condannato in sede di merito per i reati di maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale in danno della moglie. Con riferimento a quest’ultimo delitto, in particolare, la pronuncia aveva trovato fondamento nelle dichiarazioni rese dalla parte offesa, la quale aveva riferito di non avere nell’immediatezza avvertito il fatto che il marito le stesse usando violenza sessuale in quanto in quel periodo assumeva un farmaco che le induceva un sonno profondo. L’uomo, quindi,  avrebbe compiuto – secondo l’accusa – atti sessuali a carico della donna, in assenza del consenso di quest’ultima, la quale  non sarebbe stata in condizione comunque di esprimere in quanto profondamente assopita a causa della sedazione.

Nel ricorrere per cassazione l’imputato deduceva l’inattendibilità del racconto della vittima, contestando il fatto che in ordine alla circostanza della assunzione del farmaco e a quella inerente la quantità con cui era assunto dalla persona offesa non vi erano elementi probatori sicuri. Sul punto, infatti, la sentenza impugnata aveva contestato le risultanze della consulenza di parte difensiva, in base alle quali non sarebbe stata possibile una sedazione della donna così profonda da non farle avvertire la violenza sessuale in atto a suo danno, in quanto era stata redatta da un medico non specializzato in malattie nervose, opponendo a tali affermazioni non degli elementi derivanti da cognizioni più specialistiche ma dalla lettura operata dagli stessi componenti della Corte del foglietto illustrativo del medicinale che la persona offesa avrebbe assunto.

Su tale punto la Suprema Corte, con la sentenza n. 12026/2020, ha ritenuto il ricorso fondato.

Per i Giudici Ermellini, la Corte territoriale aveva opposto ai rilievi del consulente tecnico della difesa argomenti non idonei a svilire il giudizio tecnico da questo espresso. Il Giudice di secondo grado, infatti, aveva opposto il dato, in sé privo di significato, che il predetto consulente fosse uno specialista in medicina del lavoro e delle assicurazioni e non uno specialista in psicologia o psichiatria.

Tale rilievo, secondo la Cassazione, era stato sviluppato dalla Corte in termini non convincenti, posto che, semmai, ove si fosse voluto individuare una specialità medica che avrebbe potuto attribuire una peculiare attitudine scientifica in tema di valutazioni della idoneità di un farmaco ad incidere sullo stato di coscienza del soggetto che lo abbia assunto e sulla intensità di tali effetti, la scelta più corretta, oltre a quella relativa ad un medico legale e delle assicurazioni, sarebbe stata quella di indicare un farmacologo e non uno psicologo od uno psichiatra atteso che non è compito di costoro occuparsi specificamente degli effetti che le sostanze chimiche contenute nei medicinali hanno su chi li assume.

Inoltre, era stato formulato in termini apodittici, posto che il Giudice a quo non aveva svolto alcuna ragionata censura al contenuto delle conclusioni raggiunte dal consulente della difesa, limitandosi a dubitare della congruità della sua qualificazione professionale e della sua competenza tecnica.

La Corte di appello, quindi, era autonomamente giunta alla affermazione che i medicinali assunti dalla persona offesa avevano effetti ipnotici e sedativi, tali da avere determinato nella donna uno “stato di sonno ben più profondo rispetto a quello di chi non assume alcun farmaco di tale genere, consentendo (…) all’imputato di perpetrare le pratiche sessuali (sic) di cui all’imputazione approfittando dello stato di semi-incoscienza della moglie”, la quale, ciononostante, aveva mantenuto memoria delle violenze subite tanto da riferirne successivamente con dovizia di particolari”.

Il dato che priva di effettivo significato siffatte affermazioni – sottolineano dal Palazzaccio – rivelandone la manifesta illogicità, è offerto dalla circostanza che non soltanto la Corte di merito non aveva dimostrato affatto di conoscere il dosaggio con il quale i medicinali in questione erano assunti dalla donna, dato evidentemente fondamentale ai fini della valutazione degli effetti che tali medicinali possono cagionare, ma aveva anche espressamente desunto la sostanza di tali effetti, con valutazione del tutto autoreferenziale, sulla base delle semplice lettura fatta dal giudice di primo grado del foglietto illustrativo, privatamente reperito sulla rete internet, che corredava le singole confezioni con cui vengono messi in commercio i medicinali in questione.

Tale indicazione, oltre a fondarsi inammissibilmente sulla scienza privata del giudice, il quale aveva reperito di propria iniziativa gli elementi di giudizio e li aveva valutati – pur trattandosi di elementi esulanti sia dalla scienza giuridica sia dall’immediato apprezzamento di un fatto naturale – sulla base di suoi personali criteri di giudizio era altresì viziata, alla luce della consolidata giurisprudenza di legittimità, in quanto è dovere del giudice disporre una nuova perizia, nel caso in cui sia necessario svolgere una indagine che presupponga particolari cognizione scientifiche, ove egli non condivida, intendendo discostarsene, le conclusioni cui sia pervenuto il precedente perito essendo, in particolare, inibito al giudice di disattendere i risultati di una perizia sulla sola base della propria scienza personale, derivante (proprio come in questo caso) da incerti e generici elementi non specialistici, essendo, invece, tenuto a risolvere i dubbi ed i punti critici mediante l’esame dell’ausiliario o la nomina di altro.

La redazione giuridica

Leggi anche:

 ATTI SESSUALI NEI CONFRONTI DELLA FIGLIA MA NESSUNA PROVA, ASSOLTO

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui