Negato il danno “iure proprio” e “iure hereditatis” invocato dai congiunti di una donna deceduta per complicazioni legate al virus dell’epatite c insorto dopo trasfusioni

Avevano evocato in giudizio il Ministero della salute per sentirne accertare la responsabilità, ai sensi dell’articolo 2043 c.c, per la lesione alla integrità psicofisica provocata alla loro congiunta (rispettivamente moglie e madre) consistita nell’insorgere del virus dell’epatite C che ne aveva provocato, per effetto di complicazioni, il decesso. Gli attori chiedevano conseguentemente la condanna del dicastero al risarcimento dei danni “iure hereditatis” e “iure proprio” precisando che, nell’aprile del 1977, in occasione di un ricovero in ospedale, la vittima era stata sottoposta a trattamento trasfusionale e nel 1983 le era stata diagnosticata una epatopatia cronica; nel 1992, poi, era stata accertata l’infezione da virus dell’epatite C e cinque anni più tardi era morta.

Sia il Tribunale ch la Corte di appello rigettavano la domanda relativa al risarcimento del danno “iure hereditatis” eccependo la scadenza dei termini e, quanto al danno “iure proprio”, escludeva il nesso causale tra il decesso e la patologia epatica contratta.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, i ricorrenti deducevano, ai sensi dell’articolo 360, n. 3 c.p.c., la violazione degli artt. 2935 e 2947 c.c. in tema di decorrenza della prescrizione sottolineando come il principio della conoscenza della riferibilità causale richiederebbe una valutazione oggettiva della storia clinica del soggetto leso, e non soggettiva.

La Corte d’appello – a loro avviso – avrebbe errato nel confermare la decisione di primo grado sostenendo che la paziente aveva avuto conoscenza del rapporto di causalità tra la trasfusione e la malattia già nel 1993, anno in cui era stata riscontrata la HCV, per la sua qualità di infermiera, oltre che per la circostanza secondo cui, a seguito dell’emanazione della legge n. 210 del 1992, la questione della riferibilità causale della patologia alla trasfusione era di dominio pubblico. Pertanto, secondo la Corte territoriale, dalla data della messa in mora del 26 marzo 2002 erano trascorsi i cinque anni del termine di prescrizione. L’argomentazione sarebbe errata perché fondata sulla soggettività della vittima la normativa vigente, che richiede una valutazione oggettiva, basata sulla documentazione clinica e non sulla qualifica del danneggiato. Sotto altro profilo, l’emanazione della normativa in tema di indennizzo non sarebbe sufficiente a configurare, sempre e comunque, la conoscenza della riferibilità dell’evento dannoso alla trasfusione.

La Cassazione, tuttavia, con l’ordinanza n. 21146/2021, ha ritenuto di non aderire alle doglianze proposte.

Per gli Ermellini, infatti, il giudice di secondo grado aveva fatto corretta applicazione del principio consolidato che fa decorrere il termine di prescrizione dal momento in cui la parte danneggiata era a conoscenza o poteva essere a conoscenza delle cause della patologia epatica secondo la ordinaria diligenza o quella richiesta nel caso concreto; la decisione impugnata si fondava su tre argomentazioni; richiamava il principio consolidato secondo cui la prova della consapevolezza va riferita al momento in cui la malattia è stata percepita o avrebbe potuto essere percepita, usando l’ordinaria diligenza, quale danno ingiusto, conseguente al comportamento doloso o colposo del Ministero; faceva riferimento ai due parametri oggettivi, interno ed esterno al soggetto; quanto al parametro esterno, individuava correttamente la data in cui era stata diagnosticata la patologia (anni 1992/93) e cioè riferendola alle conoscenze scientifiche del tempo; per cui essendo già in vigore della legge n. 210 del 1992, la conoscenza del problema era di pubblico dominio; quanto al criterio oggettivo interno, l’indagine aveva interessato la diligenza esigibile dalla vittima, che riguardava le informazioni di cui la stessa era in possesso e sotto tale profilo la vittima, per la qualità professionale (infermiera), aveva degli strumenti aggiuntivi per percepire la riferibilità della patologia alla trasfusione; ulteriore elemento considerato dalla Corte territoriale era quello del lungo decorso della malattia, che aveva imposto alla ammalata di rimanere a stretto contatto con medici e con le strutture ospedaliere e a sottoporsi a numerosi ricoveri, cure, esami clinici e ad ogni altra terapia relativa alla patologia in atto.

Tali elementi certamente consentivano di presumere – sulla base di una valutazione in fatto non sindacabile in sede di legittimità e non censurata – quella conoscenza del rapporto di causalità tra la trasfusione e la patologia riscontrata nel 1993, in un periodo precedente al marzo 1997 (data anteriore, di oltre cinque anni, rispetto alla lettera di messa in mora del 26 marzo 2002).

La redazione giuridica

Sei vittima di errore medico o infezione ospedaliera? Hai subito un grave danno fisico o la perdita di un familiare? Clicca qui

Leggi anche:

Shock settico per sepsi multipla contratta durante il ricovero

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui