In applicazione del principio di specialità, non commettono furto aggravato il titolare e il gestore del bar che convogliano l’acqua da una fontana pubblica nel proprio esercizio commerciale.

Con la sentenza n. 34455/2018, la Corte di Cassazione fa il punto in merito al reato di furto aggravato: si configura laddove si utilizzi l’ acqua dalla fontana pubblica, impossessandosene per uso “personale”?

Secondo gli Ermellini, no.

Per i giudici, infatti, in applicazione del principio di specialità, non commettono furto aggravato il titolare e il gestore del bar che, mediante un tubo di gomma, convogliano l’acqua da una fontana pubblica nel proprio esercizio commerciale.

In questo caso, infatti, scatterà una semplice sanzione amministrativa.

La vicenda

Nel caso di specie, la Cassazione si è occupata della vicenda riguardante il titolare e un gestore di un bar che, con un tubo di gomma, si era impossessato dell’acqua dalla fontana pubblica, convogliandola nel proprio bar.

Nei loro riguardi, per i giudici, scatta una semplice sanzione amministrativa poiché i due si sono limitati a impossessarsi di acque destinate alla pubblica fruizione con modalità diverse da quelle stabilite dall’ente gestore.

Tuttavia, non hanno mutato la destinazione impressa al bene o realizzato una vera e propria utenza abusiva che, invece, avrebbe determinato l’illecito.

Per questa ragione, i giudici hanno deciso per l’annullamento della sentenza impugnata, senza rinvio, non essendo il fatto previsto dalla legge come reato.

I due erano stati condannati a sei mesi di reclusione e 200 euro di multa per il reato di furto aggravato, essendosi appropriati dell’acqua di proprietà del Comune per evitare di pagare gli esborsi relativi.

In concorso tra loro, gli imputati avevano realizzato un allaccio abusivo alla rete idrica comunale.

Ebbene, gli Ermellini sono stati chiamati a valutare se la condotta consistente nel prelievo di acqua dalla fontana pubblica integri il delitto di furto aggravato oppure l’illecito amministrativo di cui all’ art. 17 R.D. n. 1775 del 1933, come sostituito, dapprima, dall’art. 23 D.lgs. n. 152 del 1999 e, poi, dall’art. 96, comma 4, D.lgs. n. 152/2006.

Secondo i giudici della Cassazione, l’impossessamento abusivo delle acque sotterranee e di quelle superficiali, anche raccolte in invasi o cisterne, integra esclusivamente l’illecito amministrativo di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 152/1999.

Esso insomma non integra anche il delitto di furto, atteso che, per espressa previsione dell’art. 1, comma 1, D.P.R. n. 238/1999 tali beni appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico.

Per quel che concerne, invece, le acque già convogliate nell’acquedotto comunale, il collegio ritiene che occorra distinguere due ipotesi.

La prima, valuterebbe l’impossessamento realizzato mediante un vero e proprio allaccio abusivo. Il tutto, con il conseguente mutamento della destinazione impressa al bene dall’ente gestore delle risorse idriche. In questo caso vi sarebbe anche profitto consistente nel mancato esborso del controvalore dell’acqua consumata. In questo caso può verificarsi il reato di furto.

La seconda ipotesi è quella secondo cui il bene sia già stato destinato da tale ente alla pubblica fruizione, come nel caso in esame, ma il privato cittadino ne usufruisca in violazione delle modalità stabilite.

Per la Cassazione, il giudice di prime cure, che aveva assolto gli imputati, aveva correttamente rilevato quanto segue.

Ovverosia che “nel momento stesso in cui l’acqua fuoriesce dalla rete idrica comunale per essere gratuitamente erogata alla cittadinanza, viene in rilievo da una parte, l’interesse dell’ente pubblico all’erogazione e, dall’altra parte, l’interesse del privato al prelievo“.

In questi casi, per la Corte, l’ente pubblico può regolamentare, e nella specie il Comune lo ha fatto, le modalità di fruizione. Ciò significa che potrà vietare in via amministrativa condotte di prelievo abusivo e prevedere eventuali sanzioni.

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