Il Tribunale di Napoli riconosce la responsabilità della clinica privata per un ascesso vertebrale non diagnosticato. La Corte d’Appello invece rigetta integralmente la domanda del paziente. La sentenza è confermata dalla Cassazione (Cassazione Civile, sez. III, 31/01/2024, n.2892).
La vicenda clinica
Nel 2004 l’uomo veniva ricoverato presso la Casa di cura San Francesco Gestione Curat et Sanat di Telese Terme, in preda a forti dolori al torace, dispnea e dolenzia cervico-dorsale. Nel corso del ricovero le condizioni peggiorano, tanto che cominciava ad accusare una iniziale tetraplegia. Veniva dimesso dopo nove giorni, su una sedia a rotelle con una diagnosi di “formazione disomogenea non dissociabile dalla pleura parietale di dubbia natura (lesione eteroplastica endorachidea)”.
Il giorno stesso delle dimissioni i familiari, viste le sue gravi condizioni, lo facevano ricoverare presso un’altra Struttura, ove veniva diagnosticata una spondilodiscite, ovvero la presenza di un ascesso vertebrale cervicale (situato all’apice del polmone) con sofferenza midollare. Dimesso solo nell’agosto 2005 con la diagnosi di tetraparesi da ascesso paravertebrale, dopo ricoveri in rianimazione e vari interventi chirurgici, uno dei quali di tracheotomia.
Lo stesso anno il paziente evocava in giudizio la Clinica privata, ritenendo che la sua invalidità fosse stata causata dalla negligenza e imperizia dei Medici che per primi lo ebbero in cura perché, secondo la sua tesi, l’ascesso vertebrale, non diagnosticato con esattezza e non curato immediatamente con adeguata terapia, era andato a comprimere il midollo provocandogli esiti tetraplegici permanenti.
L’iter giudiziario
Il Tribunale di Napoli, dopo avere disposto 2 CTU, la prima delle quali negava l’esistenza del nesso causale tra negligenza e danno, la seconda, invece, ne affermava la sussistenza, accoglieva la domanda e riconosceva un danno biologico nella misura del 44% liquidando l’importo di 310.048 euro a titolo di complessivo risarcimento dei danni.
Successivamente, la Corte d’Appello di Napoli, invece, accoglieva l’appello della Casa di Cura rigettando integralmente la domanda del paziente. La Corte di Napoli prendeva atto delle 2 CTU di primo grado e ne disponeva una terza facendo propri gli esiti di quest’ultima valorizzando anche le affermazioni della prima Consulenza.
Pur avendo anche l’ultima CTU confermato che la condotta dei sanitari della Casa di Cura non fosse stata congrua rispetto alle esigenze del paziente, in una situazione clinica obiettivamente difficile e con una diagnosi complessa alla quale sarebbe stato possibile arrivare solo attraverso approfondimenti diagnostici non effettuati tempestivamente, escludeva la sussistenza del nesso causale, sulla base del criterio del più probabile che non.
Ovvero, pur confermando che la Clinica non aveva avviato con immediatezza il paziente presso una struttura più adeguata e che lo stesso veniva dimesso senza la formulazione di una diagnosi esatta, la Corte riteneva mancante la prova del nesso di causa tra l’operato pur negligente della clinica privata e il danno alla persona.
Per i giudici di Appello non c’è prova sufficiente
In particolare i Giudici di secondo grado davano atto che non emergeva una prova sufficiente che un più adeguato e immediato intervento diagnostico e terapeutico avrebbe evitato l’invalidità permanente del paziente a fronte della patologia grave della quale era stato affetto, in relazione alla quale, peraltro, non esistevano linee guida certe cui i sanitari avrebbero dovuto attenersi.
Aggiungevano, inoltre, che la condotta dei sanitari aveva arrecato soltanto una riduzione della possibilità di miglior guarigione, cioè una perdita di chance, ovvero la possibilità perduta di un risultato migliore e sperato, solo eventuale nella sua realizzazione.
Il paziente si rivolge alla Corte di Cassazione
Il paziente ricorre per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Napoli del 12/11/2020 nei confronti della Casa di Cura San Francesco Gestione Curat et Sanat, nonché nei confronti di Generali Italia Spa.
Critica la sentenza impugnata per essersi uniformata alle valutazioni del CTU. Sostiene che la decisione d’appello sia contraddittoria, come era contraddittorio l’esito della CTU, in cui da un lato era accertata la negligenza tecnico-professionale dei sanitari, perché non era stata prestata la necessaria assistenza al paziente, che veniva dimesso con una diagnosi poi risultata erronea, ma, ciò nonostante, i CTU avevano concluso nel senso della incertezza della rilevanza causale di tale comportamento. Il ricorrente ribadisce anche che nelle proprie conclusioni e poi in comparsa conclusionale aveva sottolineato che è un dato scientifico accertato e noto che la patologia di ascesso se tempestivamente diagnosticata e curata può essere emendata, cioè che alla stessa si può porre idoneo riparo.
La censura è infondata e inammissibile.
Essa, in buona sostanza, critica l’esito negativo del giudizio controfattuale, denunciando la errata applicazione delle regole sulla consulenza tecnica, ma si traduce in effetti, inammissibilmente, in una critica sull’esito del giudizio. La considerazione da parte della Corte d’Appello, ai fini della formazione del suo convincimento, delle considerazioni del CT di parte appellata sana qualsiasi vizio procedurale.
La Corte d’Appello è giunta correttamente alla conclusione di escludere che le considerazioni del consulente di parte fornissero validi elementi di sostegno in ordine all’esito positivo, in termini di più probabile che non, di una tempestiva terapia antibiotica, mentre il ricorrente sostiene di aver adeguatamente ricostruito che se il paziente fosse stato curato per tempo con la terapia appropriata al suo caso, le conseguenze sarebbero state quanto meno minori.
In sostanza, la critica è diretta contro le conclusioni in cui giungono i CTU nel senso della impossibilità di ritenere accertato il nesso causale tra la negligenza della clinica, che non ha consentito una diagnosi tempestiva e le possibilità di guarigione, e le condizioni finali del paziente, e comunque in una critica verso l’accertamento in fatto contenuto nella sentenza impugnata, non rinnovabile in Cassazione.
La problematica sul nesso causale
Sostiene il ricorrente che la problematica sul nesso causale può riguardare il danno patrimoniale e il danno biologico ma non il danno non patrimoniale soggettivo e cioè il patema d’animo cagionato dalla diagnosi sbagliata, che risulta provato in giudizio, la cui risarcibilità dovrebbe essere scissa dal riconoscimento del diritto al risarcimento del danno biologico, come danno morale soggettivo autonomo a fronte dell’accertata negligenza della Casa di Cura. Praticamente la Corte d’Appello, avendo accertato e dichiarato l’errore diagnostico e terapeutico in cui era incorsa la casa di cura, avrebbe violato l’articolo 2059 c.c. non confermando il capo della sentenza di primo grado (peraltro coperto dal giudicato interno, perché non appellato) sul risarcimento del danno morale per la sofferenza e i patemi d’animo subiti a causa del suddetto errore diagnostico.
Anche questa censura è infondata. Impugnando la decisione di primo grado in relazione alla mancanza di nesso causale tra l’operato della prima Casa di Cura e il danno permanente subito dal paziente, l’appellante ha rimesso in discussione l’intero accertamento sul comportamento della prima struttura sanitaria e sulla sua efficienza causale sulla invalidità permanente che è esitato. Nessun giudicato interno si è formato, quindi, sul diritto al riconoscimento del danno morale.
La pur accertata negligenza dei primi sanitari non può essere autonoma causa di risarcimento del danno morale, se non ha avuto in realtà incidenza causale sul danno permanente che il ricorrente ha riportato.
La Corte d’Appello ha escluso, secondo un corretto ragionamento probabilistico controfattuale fondato sulla regola del più probabile che non, che dal complesso delle risultanze istruttorie (comprensive delle condizioni cliniche del paziente, delle modalità degli interventi, ed anche della mancanza di linee guida precise per la dolorosa e complessa patologia della quale era stato affetto) emergesse la prova che, se il paziente fosse da subito stato curato più diligentemente, i postumi permanenti, in termini di limitazione funzionale e di dolore fisico, sarebbero stati evitati.
La mancata liquidazione del danno da perdita di chance
Infine, sulla mancata liquidazione del danno da perdita di chance, la S.C. respinge la doglianza del paziente in quanto tale posta di danno non veniva richiesta.
Non coglie nel segno la tesi del paziente secondo cui la perdita di chance non sarebbe una nozione autonoma distinta dal danno patrimoniale per lesione del diritto alla salute e quindi non necessiterebbe di domanda autonoma.
L’affermazione è errata perché non coglie l’autonomia concettuale del danno da perdita di chance rispetto al danno biologico da lesione del diritto alla salute, più volte affermata dalla Corte di Cassazione.
Al riguardo viene riaffermato il principio di diritto secondo cui “il risarcimento del danno da perdita di chance non coincide con il risarcimento del danno biologico, né costituisce una semplice parte di esso, perché non ha ad oggetto né la limitazione funzionale dovuta all’errato intervento medico, né la perdita del risultato sperato di una guarigione, ma consiste, per converso, nella perdita della possibilità di realizzare quel risultato – possibilità che, nella specie, si sarebbe potuta astrattamente ipotizzare lesa dalla negligente, passiva o superficiale condotta dei sanitari della prima struttura privata.
La decisione della Corte di appello è dunque corretta e il ricorso viene respinto.
Avv. Emanuela Foligno