Una recente sentenza della Corte di appello civile di Lecce (1 luglio 2015) consente qualche riflessione sulla questione, tuttora controversa e di non agevole soluzione, relativa all’individuazione dei soggetti che possono essere chiamati a risarcire il paziente del danno prodotto dalla condotta di uno o più membri dell’equipe medica.
La particolarità della problematica consiste nel fatto che ci si chiede se, nel caso di esito dannoso dell’atto medico per il paziente, i singoli operatori possano (e debbano) essere tenuti a risarcire il danno anche eventualmente rispondendo dei comportamenti negligenti attribuibili ad altri componenti dell’equipe. Solitamente di responsabilità derivante da attività sanitaria effettuata in equipe si discute in ambito penale, in considerazione del fatto che vengono sottoposti ad indagine tutti i soggetti che hanno cooperato nell’ambito del trattamento, mentre nell’ambito del diritto civile la problematica è di minor rilevanza in quanto il paziente danneggiato e/o i suoi congiunti agiscono preferibilmente nei confronti della struttura sanitaria presso la quale è stata fornita la prestazione, invocandone la responsabilità contrattuale (dato che, come noto, la struttura risponde, ai sensi dell’art. 1228 c.c., dell’operato dei propri ausiliari) e così evitando di dover individuare il soggetto (o i soggetti) direttamente responsabile/i dell’evento lesivo.
La conseguenza è che i principi giurisprudenziali affermati in materia di responsabilità sanitaria d’equipe sono prevalentemente elaborati in ambito penale. Possiamo rapidamente riassumerli come segue. Il primo principio è quello dell’affidamento. Ciò significa che nelle situazioni in cui una pluralità di soggetti operi a tutela del medesimo bene giuridico sulla base di precisi doveri suddivisi tra loro, come accade, appunto, in una equipe di sala operatoria, è opportuno che ogni compartecipe abbia la possibilità di concentrarsi sui compiti affidatigli, confidando sulla professionalità degli altri, della cui condotta colposa non può in linea generale essere chiamato a rispondere. Si tratta di un principio che opera come limite all’obbligo di diligenza gravante su ogni titolare della posizione di garanzia.
Tale principio, ed ecco che in questo modo ne scaturisce un secondo, non opera però in maniera assoluta, in quanto si vuole evitare che la mera applicazione dell’affidamento comporti che ogni operatore dell’equipe possa disinteressarsi del tutto dell’operato altrui, con i conseguenti rischi legati a possibili difetti di coordinamento tra i vari operatori: si perviene così all’enunciazione del principio dell’affidamento cosiddetto “relativo” o “temperato”, in base al quale ciascuno degli operatori può essere chiamato a rispondere anche dell’operato degli altri per omesso o inesatto controllo a meno che questo non abbia ad oggetto competenze talmente specialistiche, tali da non poter essere valutate dagli altri operatori. Ulteriore principio elaborato dalla giurisprudenza, e del quale viene fatta applicazione anche dalla Corte di Appello civile di Lecce, è quello in base al quale il principio dell’affidamento, anche quando temperato, subisce una restrizione nei casi in cui vi sia un sanitario preposto alla direzione dell’intervento o del trattamento medico d’equipe (è il caso della cosiddetta responsabilità del “capo-equipe).
Ebbene, secondo la giurisprudenza pressochè uniforme il capo-equipe ha sia l’obbligo di agire con la diligenza inerente alla attività a lui individualmente riconducibile sia quello di vigilare costantemente sull’operato dei propri collaboratori (nei casi in cui è ravvisabile un capo-equipe si parla di “equipe verticale” mentre nel caso in cui la posizione degli operatori sia non strutturata gerarchicamente viene definita “equipe orizzontale”). In tal caso il soggetto che svolge funzione di capo-equipe o che, in genere, occupa una posizione apicale, anche in sede civile potrebbe essere chiamato a rispondere dei fatti colposi posti in essere dai collaboratori per una responsabilità da culpa in eligendo o in vigilando, anche in considerazione del fatto che egli, ai sensi dell’art. 1228 c.c., è tenuto a rispondere dell’operato dei collaboratori di cui si serva, in quanto l’art. 1228 c.c. è stato ritenuto applicabile anche al rapporto tra medico operatore ed il personale di supporto.
Così sinteticamente premessi i principi fondamentali elaborati dalla giurisprudenza, veniamo al caso concreto deciso dalla Corte di appello leccese. Si trattava di un intervento chirurgico di resezione della prostata nel corso del quale il paziente aveva subito gravissime ustioni provocate dall’elettrobisturi utilizzato dal chirurgo operatore. Condannato il chirurgo operatore, in solido con la struttura sanitaria in primo grado, quest’ultima e l’impresa assicuratrice del medico proponevano appello censurando la sentenza del tribunale in quanto non avrebbe tenuto conto del fatto che non poteva parlarsi, nella fattispecie, di responsabilità del chirurgo in quanto l’ustione era stata provocata da un difetto derivante dal cattivo stato dell’elettrobisturi ed al non corretto posizionamento su di esso di un elettrodo, anomalie che avrebbero dovuto essere verificate dal “ferrista” o “infermiere professionale” e non dal medico operatore.
La Corte di appello respinge però l’impugnazione sulla base del fatto che, a suo avviso, in accordo con la giurisprudenza maggioritaria, il medico, stante la sua posizione apicale nell’ambito dell’equipe chirurgica e comunque quale chirurgo che ha azionato lo strumento operatorio aveva l’obbligo di controllare che il funzionamento dell’apparecchio fosse corretto, rientrando ciò per giunta nelle sue competenze. Per giunta la Corte di appello precisa anche, con riferimento al rapporto tra medico ed infermiere, come il principio dell’affidamento non operi tra tali due soggetti, in quanto la funzione dell’infermiere nel corso dell’intervento è di assistenza del personale medico al quale vanno comunque riferite le attività svolte.
E’ quest’ultimo un principio che, seppur criticabile alla luce della nota abolizione del “mansionario” dell’infermiere e delle prospettive ulteriori di riforma finalizzate ad un sempre più marcato riconoscimento delle sue specifiche competenze, in quanto svilisce la professionalità dell’infermiere (“ferrista” e/o “strumentista”), è però abbastanza consolidato in giurisprudenza ed ha trovato frequente applicazione nelle ipotesi di mancato, dubbio o inesatto controllo sul recupero dei ferri chirurgici o sulla “conta delle garze”. A ben vedere, sotto il profilo della responsabilità stringente del capo equipe e sul rapporto medico-infermiere, la sentenza della corte leccese preferisce restare nel solco dell’impostazione tradizionale, senza recepire alcune recenti aperture verso una responsabilità di carattere più marcatamente “plurale”, finalizzata a “responsabilizzare” l’intera equipe, evitando che la mancanza di un attivo coinvolgimento di tutti gli operatori nella verifica di tutti gli aspetti (dal funzionamento della strumentazione, alla esecuzione dell’atto medico, alla verifica dei parametri vitali, alla conta delle garze, al recupero dei ferri e materiali di sutura etc.) possa condurre ad un errore che potrebbe avere conseguenze anche molto gravi.
Effettivamente, il fatto di esigere dal sanitario che si trovi in posizione apicale un controllo continuativo sull’operato degli altri componenti dell’equipe appare da un lato troppo gravoso e dall’altro inefficiente, in quanto rischia, come accennato, di deresponsabilizzare gli altri membri della squadra. Inoltre, come è stato giustamente osservato in dottrina, risulta anche anacronistico per il fatto di non tener conto della attuale complessità organizzativa e gestionale delle strutture nelle quali gli operatori sanitari agiscono (si pensi alle linee guida, alle check list operatorie, etc.).
Ecco quindi che il capo equipe dovrebbe poter fare maggiore affidamento sull’operato altrui, sia per meglio svolgere i suoi compiti di operatore sia per poter sovrintendere più accuratamente alla organizzazione ed al funzionamento della camera operatoria. In questo modo egli avrebbe un obbligo di controllo non tanto sui singoli atti ma sull’organizzazione. Un esempio pratico di una tale impostazione si riscontra in una sentenza, abbastanza isolata, del Tribunale di Varese (12 gennaio 2011), il quale ha affermato che nel caso in cui gli operatori non portino a termine la conta delle garze oppure nell’effettuarla, manifestino dubbi di non corrispondenza, il medico è senza dubbio responsabile se non interviene, mentre, nel caso in cui gli operatori effettuino la conta e dichiarino la corrispondenza tra garze utilizzate e recuperate, il chirurgo non potrà essere ritenuto responsabile.
In conclusione, al di là delle perduranti difformità interpretative, appare ormai opportuno pervenire ad una maggior stabilità della giurisprudenza sul punto, anche e soprattutto in considerazione del fatto che il disegno di legge unificato attualmente all’esame della Camera in materia di responsabilità sanitaria prevede che i sanitari possano essere destinatari di azione di rivalsa da parte della struttura (seppur con limiti quantitativi e temporali: prelievo di una percentuale della retribuzione mensile per un certo periodo) anche in ipotesi di colpa lieve, ove questa sia stata accertata in sede civile.
Ne deriva che sarà sempre più di frequente interesse degli operatori sanitari, se questo aspetto del disegno di legge dovesse tradursi in atto normativo, ottenere, in caso di intervento in equipe, l’accertamento di una loro quota di responsabilità (concorrente) minimale nell’evento lesivo o, ancor meglio, l’accertamento di una assenza di responsabilità propria, così da ridurre, o meglio ancora evitare, l’impatto economico della rivalsa oltre che il lievitare del premio della polizza assicurativa che, sempre allo stato attuale di avanzamento del citato disegno di legge, il personale sanitario sarà obbligato a stipulare anche per la copertura della colpa lieve (così da offrire alla struttura la garanzia di un fruttuoso esercizio della rivalsa).
Avv. Leonardo Bugiolacchi
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