La sussistenza (o insussistenza) di un rapporto di natura para-familiare, ai fini della qualificazione del reato di cui all’art. 572 c.p., non può essere aprioristicamente esclusa nel caso di rapporti di lavoro, intercorrenti tra professionisti di elevata qualificazione. È quanto ha affermato di recente la Suprema Corte di Cassazione nella sentenza in commento.
Come noto l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale in materia di “mobbing”, formatasi negli ultimi anni, ha posto in evidenza la difficoltà di definire in modo chiaro e corretto dal punto di vista giuridico la fattispecie di cui si tratta, sollevando continui dubbi e perplessità. Quello che è certo è il fenomeno di progressiva estensione codicistica, avutasi negli ultimi anni, dell’ambito definito come “familiare”, a realtà che, in vero, di familiare hanno ben poco. Le ragioni sono probabilmente da ricercarsi nel continuo emergere, sul piano fattuale e giuridico, di nuovi modelli di famiglia un tempo non prevedibili o comunque confinati inesistente o meglio ancora nell’area del giuridicamente indifferente. Questa estensione ha riguardato, in particolar modo l’art. 572 del c.p. rubricato (Maltrattamenti contro familiari e conviventi).
Quest’ultimo oggi trova applicazione non soltanto con riferimento alle condotte vessatorie perpetrate all’interno del tradizionale contesto “familiare”, ma si estende a tutta una serie di rapporti di autorità o di affidamento per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia. Uno dei primi esempi di tale ampia portata può trarsi da una applicazione confermata dalla Suprema Corte di Cassazione, in una sentenza del 2001 (Cass. Pen., Sez. VI, 22 gennaio 2001, Erba e aa., in Dir. Giust., 14 marzo 2001, n. 47), Si trattava allora, di un’ipotesi di angherie, inflitte da un manager, capogruppo di una squadra di giovani venditori porta a porta, agli stessi suoi dipendenti. Ebbene, in quell’occasione, la Corte confermando l’applicazione dell’art. 572 c.p., al caso in esame, dichiarava che esso, richiede ai fini della sua configurabilità, non già la coabitazione o la convivenza, bensì «solo un rapporto continuativo dipendente da cause diverse da quella familiare», come appunto il rapporto di lavoro-subordinato. Allo stesso tempo, però aggiungeva che «nel caso di specie il rapporto interpersonale che legava l’autore del reato alle vittime era particolarmente intenso, poiché a parte il contatto quotidiano dovuto a ragioni di lavoro, nel corso delle lunghe trasferte, viaggiando su un unico pulmino, consumando insieme i pasti e alloggiando nello stesso albergo, si realizzava tra le parti un’assidua comunanza di vita».
A questa faceva seguito, una ulteriore sentenza, nella quale i giudici supremi negavano l’applicazione dell’art. 572. ad un caso di mobbing sul lavoro, in quanto mancava quella “comunanza di vita” stretta e intensa, nonché l’affidamento del dipendente sovraordinato, che avrebbe potuto permettere un accostamento tra il rapporto di lavoro e l’ambiente familiare in senso lato. (Cass. Pen., Sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 26594, in Guida dir., 2009, 38, 51). Nello specifico, la Corte evidenziava come, nell’ambito dei delitti contro l’assistenza familiare, fossero da ricomprendersi anche le fattispecie la cui portata superi i confini della famiglia tradizionalmente intesa: la formulazione linguistica scelta dal legislatore postula infatti un chiaro riferimento anche a rapporti implicanti una subordinazione, sia essa giuridica o di mero fatto, che possa indurre il soggetto attivo a tenere una condotta abitualmente prevaricatrice nei confronti del soggetto passivo, tra i quali rientra pacificamente anche il rapporto che lega il lavoratore al suo datore di lavoro. (…) tale rapporto deve essere caratterizzato, però, da una “familiarità” nel senso che, pur non inquadrandosi nel contesto tipico della famiglia, comporti comunque relazioni abituali e intense, comuni consuetudini di vita e vincoli di fiducia tra i soggetti coinvolti, da cui derivi una situazione di affidamento del soggetto più debole – il lavoratore – nei confronti di quello più forte – il suo datore di lavoro.
Solo quindi in un contesto che si possa qualificare come “para-familiare” si può ipotizzare, secondo la Corte, e sempre che si verifichi lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti: “l’inserimento dei maltrattamenti tra i delitti contro l’assistenza familiare è infatti in linea con il ruolo che la stessa Costituzione assegna alla famiglia, quale società intermedia destinata alla formazione e all’affermazione della personalità dei suoi stessi componenti e nella stessa ottica vanno letti e interpretati soltanto quei rapporti interpersonali che si caratterizzano al di la delle formali apparenze per una natura parafamiliare”. Questa sentenza, in verità, lasciò non pochi dubbi, principalmente sotto il profilo del disconoscimento della sufficienza del rapporto di subordinazione lavorativa continuata ed effettiva, ad integrare le qualifiche soggettive tipiche della condotta di cui all’art. 572 c.p. Per molti, la Corte in questo caso, si era spinta a creare arbitrariamente una categoria di parafamiliarità intesa come comunanza “stretta” di vita nel cui contesto oltretutto, inseriva un non richiesto “affidamento” nonché “fiducia” del dipendente rispetto al sovraordinato. L’affidamento come stato soggettivo del dipendenti nei confronti del sovraordinato non è richiesto nemmeno con riguardo alle realtà più pacificamente concepibili come “famiglie”: non si vede dunque per quale ragione esso dovrebbe rilevare con riguardo alla comunanza di vita richiesta dalla Corte in ambito lavorativo.
L’affidamento rilevante è, invece, soltanto quello oggettivo per il cui il dipendente è affidato al sovraordinato; si tratta cioè dell’affidamento che la legge assume riconoscendo un capo al sovraordinato, quando basta per fondare doveri di protezione, e che si rivela per il sol fatto che il sovraordinato è dotato di autorità sul dipendente. La vicenda giudiziaria, quest’oggi in commento, vedeva coinvolti, un medico professionista, imputato del reato di cui agli art. 81, comma 2, 323, 572 c.p. per avere, in qualità di direttore della Unità Operativa di Cardiochirurgia di un importante Ospedale italiano, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso nonché in violazione di norme di legge o di regolamento, posto in essere iniziative discriminatorie tendenti ad un demansionamento di fatto nei confronti di un proprio sottoposto, dirigente medico specializzato in cardiochirurgia e ricercatore universitario. Nella specie si tratta di condotte volte ad isolare il subordinato, e ad umiliarne la professionalità (c.d. mobbing) e pertanto arrecando allo stesso un ingiusto danno.
Avverso la pronuncia di non luogo a procedere emessa dal Tribunale di primo grado, il ricorrente presentava ricorso per Cassazione, denunciando la violazione nonché l’erroena applicazione della legge penale, con particolare riferimento all’art. 572 c.p., nella misura in cui il giudice dell’udienza preliminare aveva escluso la natura parafamiliare del rapporto di lavoro de quo, tipica della fattispecie in esame, sulla base dell’assunto per cui, trattandosi di organizzazione di ampia dimensione, lo stesso avrebbe potuto avvalersi di un complesso di altrettanto formali garanzia di tutela. Ebbene, la Suprema Corte, investita del ricorso, annullava la sentenza impugnata, rimettendo nuovamente la causa al giudice di prime cure affinchè, in coerenza con l’applicazione dei principi di diritto richiamati, e tenuto conto anche delle specifiche censure enunciate dal ricorrente, procedesse ad un nuovo esame della vicenda.
In punto di fatto, la vicenda pare superare la particolare complessità dell’accertamento degli episodi che hanno contrassegnato il caso in esame, nonché degli stessi motivi sottostanti agli episodi medesimi. Il discorso si instaura, piuttosto intorno ad un profilo diverso: l’attribuzione della qualificazione giuridica o meno di parafamiliarità, ad un rapporto di lavoro, che seppure subordinato, intercorreva tra professionisti di elevata qualificazione, al fine di integrare la fattispecie di cui all’art. 572 c.p. Da un punto di vista fenomenologico, il richiamo normativo alla disposizione sulle molestie, alla violazione della dignità e alla creazione di un clima intimidatorio, ostile, umiliante od offensivo, come struttura tipica della fattispecie, ha fatto sì che all’interno di questa cornice si inserissero negli anni, situazioni di diversa natura, con il rischio di perdere di vista la ratio della stessa previsione normativa.
Ecco che a scanso di equivoci, la giurisprudenza di legittimità più volte negli anni è intervenuta a chiarire che il requisito dirimente va individuato nel concetto di “parafamiliarità”, fattore che investe le relazioni lavorative connotate da una informale soggezione all’altrui posizione preminente. “E’ contraddistinto da parafamiliarità quel contesto in cui le consuetudini e le prassi operative evochino sentimenti di affidamento e fiducia tipici della comunità familiare, altresì caratterizzati da una particolare quanto intensa aspettativa di assistenza e supporto che il lavoratore vanti nei confronti del proprio datore (in senso conforme, Sez. VI, 19 marzo 2014, n. 24642, in C.E.D. Cass., n. 260063; Cass. Pen., Sez. VI, 28.3.2013, n. 28606, CED Cassazione 2013 “Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. mobbing) possono integrare il delitto di cui all’art. 572 c.p., esclusivamente se, il rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente assume natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia”).
Come è facile comprendere, in punto di diritto non vi sono dubbi circa la necessità che i maltrattamenti avvengano in un contesto “familiare o parafamiliare”: sia perché l’art. 572 c.p. è destinato alla tutela della integrità e della dignità della persona, più che dell’istituto familiare e che inoltre la convivenza di tipo familiare non è la sola condizione in cui in maltrattamenti possono verificarsi; sia perché la stessa giurisprudenza di legittimità sembra ammettere la riferibilità ai maltrattamenti da mobbing in ogni rapporto di lavoro subordinato, atteso che si può senz’altro parlare di “sottoposizione all’autorità” del datore di lavoro per il semplice fatto che sussiste un rapporto di sovraordinazione/subordinazione gerarchica tra questi e la vittima (Cass., II, n. 27469/2008).
Il requisito in esame non può, tuttavia, essere automaticamente rinvenuto nelle realtà aziendali di modeste dimensioni con riguardo al numero di lavoratori impiegati, né può essere aprioristicamente escluso in imprese di grandi dimensioni, poiché la parafamiliarità attiene non al momento “quantitativo” bensì a quello “qualitativo” del rapporto di lavoro. Ed è proprio in questo stesso senso che oggi la Cassazione, richiamando i citati precedenti giurisprudenziali ha affermato che è da ritenersi (…) contraria alle comuni massime di esperienza l’affermazione (contenuta nella sentenza impugnata), secondo la quale la dinamica relazionale supremazia-soggezione psicologica sarebbe per sua natura assente nel caso di professionisti di particolare qualificazione, né sarebbe ravvisabile in tali casi la riduzione del soggetto debole in una condizione esistenziale dolorosa e intollerabile a causa di sopraffazioni sistematiche. Invero, non può dubitarsi della possibilità di ravvisare anche in situazioni lavorative coinvolgenti professionisti di alto livello un rapporto di forte soggezione del sottoposto al suo superiore gerarchico, capace con i suoi provvedimenti organizzativi di determinare un concreto, drastico demansionamento del primo, così da comprometterne la posizione all’interno dell’organizzazione e di metterne a rischio non solo le prospettive di acquisizione di più elevate abilità, ma lo stesso mantenimento delle proprie capacità professionali.
Avv. Sabrina CAPORALE