Avvocato sospeso per violazione del codice dentologico. Il caso

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Avvocato sospeso dall’esercizio dell’attività professionale per due mesi, per aver «per avere intrapreso, una procedura di pignoramento presso terzi a carico del proprio assistito, per il recupero di un proprio compenso professionale, senza avere previamente rinunciato al mandato» in una causa giunta al grado d’appello e ancora pendente»

L’art. 46 del codice deontologico forense

Si tratta della violazione dell’art. 46 del codice deontologico forense vigente ratione temporis, configurabile ogni qualvolta l’avvocato intenti una azione giudiziaria contro il proprio cliente senza aver preventivamente rinunciato al mandato alle liti, e quindi senza aver evitato, con l’unico mezzo possibile, qualsiasi situazione d’incompatibilità esistente tra mandato professionale e contemporanea pendenza della lite promossa contro il proprio assistito.
Il CNF ha chiarito che l’illecito disciplinare per violazione dell’art. 46 c.d.f. è configurabile «qualora l’avvocato intenti un’azione giudiziaria contro il proprio rappresentato senza aver preventivamente rinunciato al mandato alle liti, e quindi senza aver evitato, con l’unico mezzo possibile, qualsiasi situazione d’incompatibilità esistente tra mandato professionale e contemporanea pendenza della lite promossa contro il proprio assistito (nella specie, il ricorrente aveva mantenuto la difesa del proprio cliente dopo averlo diffidato stragiudizialmente al pagamento di un suo credito per prestazioni professionali e dopo aver dato corso nei suoi confronti a procedura monitoria ed a procedura esecutiva). CNF sentenza n. 146/2008»
Ebbene, nel caso in esame, l’avvio della procedura esecutiva era avvenuta subito dopo il deposito della favorevole sentenza di appello e prima ancora di avvertire il cliente. Il Cnf aveva deciso pertanto di confermare la sanzione inflitta dal consiglio distrettuale di disciplina considerata anche la rivestita carica di componente del COA, cui si richiedeva il massimo rigore nel rispetto delle regole deontologiche e di evitare atteggiamenti atti a recare disonore alla istituzione rappresentata.
Per la cassazione della sentenza ricorreva il difensore, insistendo in via preliminare per la sospensione della sentenza di condanna, perché viziata per eccesso di potere e violazione di legge.

Ma per i giudici della Cassazione la decisione adottata e confermata dal CNF è valida.

I giudici competenti nel merito, non avevano fatto altro se non applicare i parametri di terminazione della sanzione previsti anche dall’art. 2 del codice deontologico vigente al momento dei fatti (2010). Tale disposizione rimetteva con grande ampiezza alla discrezionalità dell’organo disciplinare la concreta determinazione della pena, coi soli limiti dell’adeguatezza alla gravità dei fatti e della considerazione delle specifiche circostanze, soggettive e oggettive, che avevano concorso a determinare l’infrazione.
Quello appena delineato rappresenta un sistema certamente più favorevole rispetto all’attuale sistema (e dunque, applicabile in concreto, in ossequio al principio costituzionale della retroattività della lex mitior), il cui art. 21 ridisegna la potestà disciplinare con più compiuta discrezione dei parametri di determinazione della sanzione, limitandosi a disciplinare e tipizzare, al capoverso del successivo art. 22, le relative valutazioni «nei casi più gravi» a più piena garanzia dell’incolpato.
Dunque,- per i giudici della Cassazione – la scelta di applicare una norma del sopravvenuto codice deontologico, «rimane in sostanza irrilevante, perché non incisivo e in ogni caso, inidoneo ad inficiare la correttezza delle argomentazioni sviluppate, essendosi la sentenza impugnata limitata ad applicare una normativa corrispondente anche a quella previgente ed a scegliere la sanzione entro i limiti di graduazione previsti sia da questa che da quella successiva».
In definitiva, «l’irrogazione della sanzione più afflittiva, non incorre in alcun errore e rimane, incensurabile in sede di legittimità».
Nel respingere il ricorso, la Corte di Cassazione ha anche ricordato che «nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati, gli elementi valutati in concreto per la determinazione della specie e dell’entità della sanzione non attengono all’an od al quantum della condotta, ma solamente alla valutazione della sua gravità e devono, in sostanza, reputarsi quali meri parametri di riferimento a questo solo scopo, in quanto tali analoghi a quelli previsti dall’art. 133 e dall’art. 133 bis c.p.; e, in quanto non integrano invece circostanze aggravanti in senso tecnico della fattispecie dell’illecito, vale a dire elementi accidentali non indispensabili ai fini della sussistenza, della fattispecie sanzionatrice, quegli elementi di determinazione in concreto della sanzione sono di norma sottratti all’onere, per il titolare del potere sanzionatorio, di previa e specifica contestazione».

La redazione giuridica

 
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