La presenza delle braci è conseguenza del mancato rispetto della regola cautelare di pulire l’arenile, e perciò stesso non può considerarsi fatto imprevedibile ed inevitabile, posto che, pulendo adeguatamente, si sarebbe evitato il danno

Una mattina d’estate del 1999, un minore sedendosi su un tratto di spiaggia del Comune di Castelvetrano, riportava gravi ustioni a causa della presenza di braci ancora ardenti, nascoste sotto la sabbia e rimaste li dai falò accesi la sera precedente da ignoti.
I genitori, quali rappresentanti legali del minore, agivano in giudizio sia nei confronti del Comune che della Capitaneria di Porto, assumendo la responsabilità di entrambi per i danni riportati dal figlio.
Il Comune, costituitosi in giudizio, chiedeva e otteneva la chiamata in garanzia della ditta appaltatrice dei lavori di pulizia. E la domanda fu accolta in primo grado.
Il Tribunale aveva ritenuto responsabili sia la Capitaneria che l’ente locale per i danni occorsi al minore.
La decisione veniva, poi, parzialmente confermata anche in appello.
Sulla vicenda si sono pronunciati i giudici della Cassazione con ricorso presentato dalle parti soccombenti.

I motivi di ricorso per Cassazione

In particolare, il Comune si doleva del fatto che la brace, che aveva provocato il danno, era nascosta sotto la sabbia e che dunque, non era possibile per gli addetti alla pulizia avvedersene, se non effettuando scavi che però l’ente, essendo la spiaggia un bene demaniale, non avrebbe potuto realizzare da sé.
Al contrario, l’unico obbligo gravante sul Comune, era quello, stabilito per legge (I. n. 915 del 1982), di raccolta e smaltimento dei rifiuti, che non comprende evidentemente, quello di effettuare scavi o di bonificare l’arenile, posto che per esse è necessaria l’autorizzazione del Ministero proprietario.
Tutto ciò senza considerare che il fatto che ignoti, dopo i falò avessero nascosto la brace sotto la sabbia, e che la brace stessa non fosse visibile, rendeva fortuito l’incidente, con interruzione del nesso casale.
Ma è proprio cosi?

Per i giudici della Cassazione il motivo è infondato.

La corte di appello aveva smentito la decisione di primo grado relativamente al criterio di imputazione, ritenendo che non si trattasse di responsabilità ex art. 2051 c.c., bensì di responsabilità extracontrattuale (ai sensi dell’art. 2043 c.c.).
Per gli Ermellini tale nuova ricostruzione giuridica è corretta.
In effetti, il Comune di Castelvetrano non può certo considerarsi custode dell’arenile nel senso di cui all’art. 2051 c.c..
Come noto, tale norma presuppone una situazione di controllo della cosa, indipendente da direttive o da autorizzazioni altrui.
Ma se è vero che la custodia non coincide con la proprietà o la titolarità di diritti reali, e ben può consistere in una situazione di fatto, è anche vero però che deve trattarsi di un potere autonomo di controllo e gestione della cosa, perché solo tale autonomo potere giustifica l’obbligo di prevenzione dei danni riconducibili al bene custodito.
Il Comune di Castelvetrano non poteva certo dirsi titolare di siffatto potere sull’arenile, essendo incaricato soltanto della raccolta dei rifiuti, e dunque privo di una relazione con la cosa, idonea a giustificare l’applicazione della regola di responsabilità citata.
Nondimeno poteva ravvisarsi un profilo di responsabilità a titolo di imputazione per violazione del principio generale del neminem ledere di cui all’art. 2043 c.c.

Omissione in senso stretto e omissione dell’azione

Sia il comune che la sentenza impugnata discutevano di omissione, ossia di quella condotta rispetto alla quale verificare quale altro comportamento alternativo lecito, se posto in essere, avrebbe consentito di evitare l’evento.
Per il comune si può parlare di omissione solo quando esiste uno specifico obbligo di agire a beneficio altrui.
Questa impostazione- a detta degli Ermellini – è frutto di una (in parte diffusa) confusione tra omissioni in senso stretto e cosiddette omissioni nell’azione.
Ogni condotta colposa – affermano i giudici della Suprema Corte – è caratterizzata da una omissione, ossia dal mancato rispetto di regole cautelari. Ciò non significa però che si tratti di una condotta omissiva, ossia che il danno è causato da una omissione. Si tratta piuttosto di una condotta attiva caratterizzata dall’omesso rispetto delle regole cautelari proprie.
La colpa, è da un punto di vista strutturale, una omissione. Essa consiste nel mancato rispetto di regole di prudenza, perizia, diligenza. Chi agisce con colpa omette di osservare regole di prudenza. Chi non si ferma allo stop, è in colpa perché ha omesso di osservare un segnale stradale.

Azione od omissione?

Tuttavia, altro è l’omesso rispetto di una regola cautelare, che, secondo una terminologia francese, è una omissione “nell’azione”, altro è l’omissione in senso stretto. Altrimenti, se non si chiarisce questa distinzione, ogni condotta attiva colposa rischia, come è avvenuto nel caso di specie, di essere trattata come condotta omissiva, a cagione dell’omesso rispetto di una regola cautelare.
In sostanza la condotta colposa è una condotta attiva caratterizzata dall’omesso rispetto di regole cautelari.
Invece l’omissione propria è caratterizzata dall’omesso rispetto di un obbligo di agire a beneficio altrui (ad esempio, l’omissione di soccorso). E pertanto chi investe un passante non essendosi fermato allo stop non causa il danno per omissione, ma lo causa mediante una condotta attiva colposa, caratterizzata dall’omesso rispetto di regole cautelari.
Nella fattispecie in esame, per la Cassazione ci si trova di fronte ad un danno causato non da una omissione in senso proprio, bensì da una condotta attiva (la difettosa pulizia dell’arenile) caratterizzata dall’omesso rispetto di una regola cautelare: quella di pulire adeguatamente l’arenile dai rifiuti. Con la conseguenza che non si può discutere della esistenza di un obbligo di agire a beneficio altrui, ma si deve discutere di violazione, nell’ambito di una condotta attiva e non omissiva, delle regole cautelari proprie di quell’azione.
Il Comune, in base agli articoli 2,3,8 del D.P.R. n. 915/ 1982 ed alla legge regionale n. 25 D/ 1993, nonché al D.Lgs. 22/ 1997 ha l’obbligo della rimozione dei rifiuti sugli arenili che rientrano nei perimetri urbani, competendo alla Regione quello relativo ai perimetri extraurbani (vedi il precedente in termini Cass. 20731/ 2016).

L’omesso l’assolvimento dell’obbligo di rimozione dei rifiuti

Si tratta allora della violazione di una cautela specifica, che non può dirsi, come ritiene il ricorrente inesigibile o rispetto alla quale il danno è dovuto al fortuito, in quanto la rimozione dei rifiuti non è stata adeguata, e non può ovviamente considerarsi imprevedibile la presenza di braci, anche se nascoste sotto sabbia, in un periodo in cui gli utenti dell’arenile sono soliti fare falò notturni.
Invero la presenza delle braci è conseguenza del mancato rispetto della regola cautelare di pulire l’arenile, e perciò stesso non può considerarsi fatto imprevedibile ed inevitabile, posto che, pulendo adeguatamente, si sarebbe evitato il danno”.
Né il Comune può assumere di non essere tenuto a rimuovere le braci residue di un falò, avendo, in tal caso, bisogno di una apposita autorizzazione regionale, come se quella rimozione fosse uno scavo. La brace lasciata da chi ha acceso il falò è in realtà, un rifiuto solido il cui smaltimento rientra negli obblighi del Comune, e la sua rimozione non presuppone attività di scavo o di bonifica, per le quali il Comune necessita di autorizzazione.
Per tutte queste ragioni che il ricorso è stato respinto e confermata, in via definitiva, la condanna dell’ente locale.

La redazione giuridica

 
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