Nelle cause attinenti la ricostruzione di vicende sanitarie, la giurisprudenza della Suprema Corte è ormai stabilizzata nell’attribuire un importante rilievo alla cartella clinica, al fine di evincerne la sussistenza o meno della responsabilità dei sanitari o della struttura

La giurisprudenza

In tal senso, da ultimo, la Terza Sezione Civile della Cassazione (sentenza n. 27561 del 21 novembre 2017) ha ribadito proprio che “l’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente, soltanto quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno” (pure Cass. sez. 3, 12 giugno 2015 n. 12218).

In altre parole, la conformazione della condotta del sanitario nel senso di astratta idoneità alla causazione dell’evento dannoso è sempre il primo elemento da vagliare, in quanto, se, al contrario, la condotta del sanitario sia stata astrattamente – id est assolutamente – inidonea a causarlo, non occorrerebbe alcuna ulteriore ricostruzione fattuale; dopo di che, se si è superato questo stadio di indagine, in secondo luogo l’incompletezza della cartella deve essere tale da impedire la ricostruzione fattuale sul piano concreto, e in particolare nel suo nucleo centrale, identificabile nella connessione materialmente eziologica fra condotta sanitaria commissiva od omissiva ed evento.

In un’altra sentenza, i giudici della Terza Sezione Civile della Cassazione (18 settembre 2009 n. 20101) hanno meglio chiarito che “il medico ha l’obbligo di controllare la competenza e l’esattezza delle cartelle cliniche e dei relativi referti allegati, la cui violazione comporta la configurazione di un difetto di diligenza rispetto alla previsione generale contenuta nell’art. 1176 c.c., comma 2 e, quindi, un inesatto adempimento della sua corrispondente prestazione professionale”; e ancora, sempre tra gli arresti più recenti, la giurisprudenza insegna che “la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. Tali principi operano non solo ai fini dell’accertamento dell’eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente” (Cass. sez. 3, 31 marzo 2016 n. 6209).

La vicenda

Nel caso di specie gli attori avevano agito in giudizio contro la struttura sanitaria lamentando la carenza/inadeguatezza del trattamento infermieristico e il difetto di assistenza del personale per non aver saputo fronteggiare in modo idoneo le complicanze (piaghe da decubito) derivate dalla c.d. sindrome da allettamento patita dal loro congiunto che ne avrebbero poi cagionato la morte.

Oltre all’asserita carenza di assistenza infermieristica, i ricorrenti avevano allegato anche il disinteresse avuto dai medici in ordine alla questione del decubito, così da renderne possibile l’aggravamento e impossibile invece la guarigione.

L’incompletezza della cartella clinica

La consulenza tecnica espletata in giudizio non era stata, tuttavia, categorica nell’affermare che le piaghe da decubito avessero avuto “un ruolo” determinate nella causazione della morte del paziente e ciò a causa della asserita (da parte dei client) incompletezza della cartella clinica e dell’impossibilità per il perito di effettuare una diagnosi certa quale conseguenza della mancanza di autopsia.

In realtà i giudici della Suprema Corte hanno respinto il ricorso dei congiunti della vittima riaffermando il principio di diritto secondo il quale “pur riconoscendo la rilevanza dell’incompletezza della cartella clinica nella ricostruzione delle vicende sanitarie e nell’accertamento della sussistenza o meno di responsabilità dei sanitari stessi o della struttura, tale elemento «non conduce automaticamente all’adempimento dell’onere probatorio da parte di chi adduce di essere danneggiato»”.

La decisione

Nel caso di specie, la corte d’appello, sia pure con una motivazione scarna ma “congruamente motivata sulla base di una accurata analisi di tutti gli elementi disponibili”, aveva dichiarato che la “causa della morte [del paziente] non fu un’infezione delle piaghe da allettamento… bensì uno scompenso cardiocircolatorio acuto e conseguente edema polmonare“.

Il giudice d’appello aveva, in tal modo, espletato il suo accertamento fattuale, e il ricorso per cassazione non genera, come è noto, un terzo grado di merito. D’altronde, hanno aggiunto gli Ermellini “Non condividere un accertamento fattuale non consente di trasformare un accertamento in una manifestazione di dubbio”. Per questi motivi il ricorso è stato rigettato.

La redazione giuridica

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