Non possono essere condannati i due medici accusati di omicidio colposo ai danni di una paziente poiché il giudice di merito non ha identificato con precisione di quale tipologia di colpa si sia trattato

La vicenda

La Corte d’Appello di Catania aveva confermato la pronuncia emessa dal Tribunale di Catania con la quale due medici (un radiologo e un medico di pronto soccorso) erano stati giudicati responsabili del reato di cui all’art. 589 c.p., per colpa consistita nell’aver cagionato la morte di una paziente, condannandoli alla pena di un anno di reclusione nonché al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili.

La Corte d’Appello aveva negato che gli imputati fossero incorsi in mera imperizia e che la loro colpa fosse stata di grado lieve, così escludendo tanto l’applicazione dell’art. 3 della legge n. 189/2012 che dell’art. 590-sexies c.p., introdotto dalla legge n. 24/2017; ed aveva altresì negato l’applicazione delle attenuanti generiche e rigettato la richiesta di revoca della disposta provvisionale o di sospensione della esecuzione della stessa.

La vicenda aveva avuto origine nel maggio del 2010, allorquando la paziente si presentò all’Ospedale, ove venne sottoposta a TAC cerebrale senza contrasto da parte del medico radiologo, coimputato del medesimo procedimento ma assolto. Questi, secondo l’accertamento condotto dal primo giudice, omise di diagnosticare una già presente emorragia sub aracnoidea (ESA). Il giorno successivo la donna venne nuovamente sottoposta a TAC su richiesta dello stesso medico; l’esame venne eseguito dal radiologo condannato nel presente giudizio, il quale emise un referto del seguente tenore “reperti tac odierni invariati rispetto ai precedenti di ieri”.

Dopo un periodo di degenza, agli inizi del mese di giugno, la paziente venne dimessa con diagnosi di “cefalea a frigore”.

Alla fine del mese, la donna si presentò nuovamente al pronto soccorso dell’Ospedale, lamentando sindrome vertiginosa perdurante da circa un mese; venne visitata dal medico di turno il quale, pur essendo a conoscenza dell’avvenuta esecuzione di due esami TAC encefalo, omise di disporre l’esecuzione di rachicentesi o di un nuovo esame TAC encefalo e dimise la paziente con la diagnosi di sindrome vertiginosa. Nei giorni successivi le sue condizioni di salute subirono un peggioramento e di li a poco la donna decedette a causa di una emorragia subaracnoidea determinata dalla rottura di un aneurisma intracranico.

Non essendo stata contestata la ricostruzione dei fatti, la Corte d’Appello aveva approfondito il tema della misura della divergenza tra condotta doverosa e condotta concretamente tenuta dai due medici imputati, anche attraverso una perizia disposta nel giudizio di secondo grado. Le conclusioni alle quali era pervenuta la Corte d’Appello erano state nel senso che il primo medico aveva sottovalutato i sintomi patognomici ampiamente manifesti e che non aveva dato luogo a un iter diagnostico, che poteva portare fino alla esecuzione di puntura lombare, rendendo quindi impossibile il trattamento precoce dell’aneurisma. La condotta del predetto sanitario fu per un verso negligente e per altro imperita; la sua condotta fu pertanto “grave, stante la ragguardevole deviazione rispetto all’agire appropriato, quale definitito dalle raccomandazioni contenute nelle linee guida di riferimento che prevedono l’esecuzione di angioTac”.

In modo analogo la corte distrettuale aveva ritenuto gravemente colposo anche il comportamento del secondo medico, in quanto non conforme ai protocolli terapeutici, che avrebbero imposto di richiedere una consulenza specialistica o almeno un nuovo esame Tac. Aveva ravvisato quindi una grave imperizia e una grave negligenza.

La vicenda è giunta in Cassazione. Tra gli altri motivi di ricorso ciascuno dei ricorrenti aveva lamentato la ingiustificata esclusione della applicabilità tanto della disciplina recata dall’art. 3, comma 1 della legge n. 189/2012 che dell’art. 590-bis c.p.

I rilievi sono fondati – ha affermato la Suprema Corte di Cassazione (Quarta Sezione Penale) con la sentenza (n. 15258/2020) in commento.

Nonostante le notevoli difficoltà interpretative proposte dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 158/2012 la giurisprudenza di legittimità ne ha definito con sufficiente nitidezza i contenuti precettivi, tra i quali meritano esplicita menzione:

  • la limitazione della responsabilità del medico alla ipotesi di errori connotati da profili di colpa generica diversi dall’imperizia;
  • l’”abolitio criminis” parziale degli artt. 589 e 590 c.p., avendo l’art. 3, comma 1 ristretto l’area del penalmente rilevante rispetto alla fattispecie “comune”;
  • ed il fatto che grava sull’accusa l’onere di dimostrare che ricorrono le condizioni per la rilevanza penale del fatto contestato e quindi che la condotta colposa non è stata tenuta attuando linee guida pertinenti al caso concreto, o che si è in presenza di colpa grave.

Il sopraggiungere dell’art. 590-sexies c.p., introdotto dall’art. 5 della legge n. 24/2017, ha determinato un nuovo cambio di scenario. In estrema sintesi:

a) la nuova fattispecie ha natura giuridica di causa di non punibilità;

b) essa trova applicazione nei soli casi di imperizia;

c) la colpa del sanitario è suscettibile di irrilevanza penale solo se di grado lieve.

In particolare, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite, l’abrogato art. 3 comma 1, del d.l. n. 158/2012, si configura sia in relazione alle condotte connotate da colpa lieve per negligenza o imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve per imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto.

Ne deriva che il giudice di merito investito del compito di pronunciarsi in ordine alla responsabilità dell’esercente una professione sanitaria per l’evento infausto causato nel praticare l’attività, ove concluda per la attribuibilità di quello alla condotta colposa dell’imputato, è tenuto a rendere una articolata motivazione, dovendo indicare, tra l’altro: 1) se il caso concreto sia regolato da linee-guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali; 2) specificare di quale forma si tratti (se di colpa generica o specifica, e se di colpa per imperizia, o per negligenza o imprudenza); 3) appurare se ed in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata dalle pertinenti linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali e più in generale quale sia stato il grado della colpa; 4) ove il reato non sia stato commesso sotto la vigenza dell’art. 590-sexies c.p., accertare a quale delle diverse discipline succedutesi nel tempo debba essere data applicazione, in quanto più favorevole all’imputato nel caso concreto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2 comma 4, c.p.

Per quanto riguarda, invece, l’accertamento del grado della colpa, dovrebbero considerarsi molteplici indici, taluni dei quali attengono alla cd. misura oggettiva della colpa, altri alla cd. misura soggettiva della colpa.

Nella giurisprudenza di legittimità si fa fatica ad individuare indicazioni in merito a ciò che deve intendersi per imprudenza, negligenza, imperizia.

Tuttavia, con specifico riferimento alla responsabilità sanitaria si è sostento che l’errore diagnostico è frutto di imperizia; mentre la scelta compiuta dal sanitario il quale, tra due possibili modalità d’esecuzione di un intervento chirurgico, abbia preferito quella ritenuta più agevole ancorché maggiormente rischiosa, integra gli estremi della condotta imprudente.

Ad avviso della Cassazione non è possibile operare delle generalizzazioni per le molteplici espressioni dell’esercizio delle attività sanitarie, perché almeno nella maggioranza dei casi uno stesso atto medico può mettere radici in causali diverse. A mero titolo di esempio: la somministrazione di un farmaco in dose non curativa ma letale può dipendere tanto dalla scarsa attenzione posta nel leggere la prescrizione redatta dal primario, quanto dalla carente conoscenza delle caratteristiche del farmaco, che lascia credere alla innocuità del quantitativo somministrato.

La decisione deve quindi riuscire a delineare l’origine dell’errore; e poiché ove sia il carattere negligente o imprudente della condotta a fare da fondamento alla pronuncia di condanna, non può che trovare anche in questo caso, ove persista incertezza in ordine a quell’origine, il canone del favor rei, quale completamento della regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio.

La definizione di perizia

“La perizia – si è detto – è connotato di attività che richiedono competenze tecnico-scientifiche o che presentano un grado di complessità più elevato della norma per le particolari situazioni del contesto; l’agire dei professionisti, e quindi anche dei sanitari, propone in via elettiva errori determinati da imperizia, sicché l’eventuale negligenza o imprudenza deve essere accertata specificamente, in base a pertinenti dati fattuali che ne attestano la ricorrenza”.

Quanto alla colpa, ai fini della personalizzazione del rimprovero che può essere mosso all’agente, e quindi della sua colpevolezza, va determinato considerando: 1) la gravità della violazione della regola cautelare; 2) la misura della prevedibilità ed evitabilità dell’evento; 3) la condizione personale dell’agente; 4) il possesso di qualità personali utili a fronteggiare la situazione pericolosa; 5) le motivazioni della condotta. Nel caso in cui coesistano fattori differenti e di segno contrario, il giudice deve valutarli comparativamente (Cass. Sezione Quarta, n. 22632/2008).

La “colpa” nella professione sanitaria

Con specifico riferimento all’esercente una professione sanitaria, si può ragionevolmente parlare di colpa grave solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato, rispetto al parametro dato dal complesso delle raccomandazioni contenute nelle linee guida di riferimento, quando cioè il gesto tecnico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia ed alle condizioni del paziente; e quanto più la vicenda risulti problematica, oscura, equivoca o segnata dall’impellenza, tanto maggiore dovrà essere la propensione a considerare lieve l’addebito nei confronti del professionista che, pur essendosi uniformato ad una accreditata direttiva, non sia stato in grado di produrre un trattamento adeguato e abbia determinato, anzi, la negativa della patologia (Cass. Sezione Quarta, n. 16237/2013).

Ebbene, quanto alle linee guida sia che si ritenga che esse contengano mere raccomandazioni, dal contenuto generico e defettibile, che sta al sanitario valutare come adeguate al caso specifico e/o adottare alla particolarità dello stesso; sia che le si consideri strutturate in varia guisa e talvolta quindi come vere e proprie regole cautelari rigide, altre volte come vere e proprie regole cautelari elastiche, quel che viene implicitamente messo a fuoco è l’esistenza di uno spazio valutativo affidato per intero al sanitario, che in solitudine è chiamato a individuare l’agire doveroso.

Orbene, l’adempimento di questo dovere di riconoscimento della situazione di rischio e di individuazione della risposta cautelare più efficace, può risultare più o meno agevole; lo è in modo diverso a seconda che la raccomandazione/regola abbia carattere rigido e sia esaustiva o abbia carattere elastico, magari indicando presupposti definiti solo genericamente.

Non solo quindi l’oscurità del quadro clinico; ma anche la difficoltà del sanitario di riconoscere la situazione di rischio e individuare la misura da adottare per effetto della lacunosa positivizzazione.

Ebbene, calando tali principi al caso in esame, posto che come già osservato l’errore diagnostico è considerato dalla giurisprudenza di legittimità effetto di imperizia, la classificazione– ad avviso degli Ermellini – avrebbe richiesto l’accertamento della natura dell’errore nel caso specifico, senza assumere generalizzazioni semplificatorie o eludere le necessità probatorie.

Nel caso in esame, la identificazione della specifica forma di colpa effettuata dalla corte d’appello, era stata oltremodo incerta.

Per queste ragioni, la sentenza impugnata è stata cassata con rinvio al giudice di merito per un nuovo esame.

Avv. Sabrina Caporale

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