Presentata la prima Indagine sulla continuità assistenziale in Italia. Nel 2018 solo il 2% degli over-65 è stato accolto in RSA e solo 2,7 anziani su 100 hanno ricevuto cure a domicilio

La rete della continuità assistenziale agli anziani, per funzionare bene, deve disporre di servizi di assistenza domiciliare (ADI) e residenzialità assistita (RSA) adeguati e diffusi sul territorio. Essi rappresentano uno dei pilastri su cui si fondano sostegno e cure offerte agli anziani, eppure risultano ancora carenti rispetto ai 14 milioni di anziani residenti in Italia.

Lo dicono i dati del Ministero della Salute che ha ricalcolato al ribasso il numero dei cittadini che nel 2018 hanno beneficiato di questi servizi: solo il 2% degli over-65 è stato accolto in RSA e solo 2,7 anziani su 100 hanno ricevuto cure a domicilio, con incredibili divari regionali. In Molise e in Sicilia più del 4% degli anziani può contare sull’ADI, mentre in Calabria e Valle d’Aosta si stenta ad arrivare all’1%.

“L’ADI, che in Italia cresce troppo lentamente, più lentamente di quanto crescano i cittadini che ne avrebbero bisogno, è il vero cortocircuito di una buona continuità assistenziale. È evidente  il ritardo dell’Italia in questo campo anche rispetto agli altri Paesi europei: per ogni ora di assistenza a domicilio erogata nel nostro Paese, all’estero si arriva anche a 8-10 ore”.  A spiegarlo è Roberto Bernabei, Presidente di Italia Longeva, la Rete Nazionale di Ricerca sull’invecchiamento e la longevità attiva, in occasione della presentazione della prima Indagine sulla continuità assistenziale in Italia, curata da Davide Vetrano, geriatra dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e ricercatore al Karolinska Institutet di Stoccolma, in collaborazione con la Direzione Generale della Programmazione sanitaria del Ministero della salute.  

Quasi 1 italiano su 4 ha più di 65 anni, con una rilevante fetta di popolazione – oltre 2 milioni di persone – che supera gli 85 anni: siamo un popolo longevo, ma in molti casi i nostri anziani sono soggetti fragili, affetti da multimorbilità, cioè la concomitanza di più patologie, con ridotta autosufficienza e costretti all’assunzione contemporanea di più farmaci.

La ricerca commissionata da Italia Longeva si sofferma su 17 tra le esperienze più virtuose messe in campo dalle Aziende sanitare locali e ospedaliere in otto regioni (Basilicata, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Toscana e Umbria). Si tratta di 8 best practice di gestione delle cosiddette dimissioni difficili e 9 modelli efficienti di organizzazione delle reti territoriali. Esperienze regionali, perché la continuità assistenziale è in primis presenza sul territorio, attraverso l’organizzazione di una rete di servizi sociosanitari capillare, flessibile e facilmente accessibile, in grado di offrire un’assistenza personalizzata e multidisciplinare. Italia Longeva, nella sua indagine, oltre a descrivere il funzionamento di reti di servizi territoriali a copertura regionale, si sofferma ad analizzare 4 dei percorsi terapeutico-assistenziali più complessi, che riguardano pazienti con demenza, malattia di Parkinson e piaghe da decubito, dai quali emerge l’importanza di disporre di una fitta e ben concertata multidisciplinarietà a livello delle singole Aziende sanitarie.

Nelle buone pratiche di continuità assistenziale analizzate, uno dei protagonisti della rete è il medico di medicina generale, che però non agisce più come singolo, ma opera in sinergia con altri colleghi (ad esempio nelle Case della salute) e indossa il camice del medico di reparto (come nel caso degli Ospedali di comunità). La collaborazione tra i diversi professionisti facilita il “viaggio” del paziente durante i suoi molteplici contatti con la rete territoriale, sgravandolo dalle incombenze legate a prescrizioni, prenotazioni e liste d’attesa. “La continuità assistenziale è una forma di efficientamento del sistema: un servizio concreto per i cittadini, che tende a una migliore assistenza e alla semplificazione dei processi”, commenta ancora il prof. Bernabei.

L’ospedale si occupa invece delle emergenze e delle patologie acute, ma nelle buone pratiche prese in esame dialoga pure con il territorio per la gestione del rientro in comunità (dimissioni protette). Nei 7 modelli di dimissione protetta analizzati, la sinergia massima tra ospedale e territorio si realizza quando sono le stesse Centrali di continuità territoriali ad entrare in ospedale per prendere in carico il paziente prossimo alla dimissione, o addirittura, quando è l’ospedale stesso che accompagna il paziente durante il processo di dimissione dall’ospedale verso il proprio domicilio continuando a prendersene carico anche dopo.

“Una buona continuità assistenziale si delinea già al tempo zero, dall’arrivo in Pronto Soccorso – continua il prof. Bernabei –. Quando il paziente esce dall’ospedale non è abbandonato a se stesso, con tutti i relativi oneri burocratici, ma c’è qualcuno che gli semplifica la vita nel rientro in comunità. È il sistema che agisce in una logica proattiva, predisponendo, ad esempio, il trasferimento presso strutture riabilitative e RSA, attivando l’assistenza domiciliare senza che sia il paziente a dover rincorrere uffici comunali e consorzi, o ancora dando all’anziano la possibilità di ricevere farmaci e ausili a domicilio, e prenotare visite di controllo da remoto”.

Un paracadute insomma, che si dispiega sul territorio, ma presuppone l’esistenza di strutture di riferimento per i casi critici, nonché di un’adeguata infrastruttura informatica, senza la quale gli attori della rete non riescono a dialogare: ed è quest’ultima un’altra area di notevole miglioramento, tanto quanto l’utilizzo delle tecnologie (monitoraggio a distanza del paziente, impiego di presidi tecnologici, ecc.), essenziali per realizzare una presa in carico efficace, continuativa e sostenibile.

“L’Italia, si sa, viaggia a diverse velocità – conclude il prof. Bernabei –: ci sono esempi d’avanguardia, ma pure aree che stentano a decollare. Alcuni snodi della continuità assistenziale risultano ancora insufficienti, giacché la loro efficacia si dovrebbe fondare su una buona organizzazione. Da ciò trae ispirazione il nostro impegno: vogliamo far emergere le esperienze migliori, e mutuarle in zone del Paese sempre più vaste”.

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