Aveva denunciato di esser stato costretto, per anni, a lavorare in condizioni lavorative “stressogene”, ma per i giudici della Cassazione il comportamento datoriale non era stato caratterizzato da iniziative idonee a ledere i diritti fondamentali del dipendente

La vicenda

Un’azione volta ad ottenere il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, quantificato nella somma di 1.056.512 euro a carico del proprio datore di lavoro, per aver tenuto una condotta mobbizzante nei suoi confronti, nel lungo periodo compreso tra il 1996 il 2004.
In primo grado la domanda era stata respinta con sentenza confermata anche in appello.
Nella specie, la corte d’appello di Roma aveva ritenuto non raggiunta la prova né della sistematica emarginazione del dipendente “protratta per anni” e presuntivamente mossa da un intento persecutorio né del contestato demansionamento.
Ma per l’originario attore, così facendo la corte di merito sarebbe incorsa in errore, avendo fatto cattiva applicazione delle disposizioni vigenti in materia di distribuzione dell’onere della prova (art. 2697 c.c.).
Quindi il ricorso per Cassazione.

Il “mobbing” lavorativo e l’onere della prova

Premesso che è configurabile il “mobbing” lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo, è onere del lavoratore che lo denunci e che chieda di essere risarcito, provare l’esistenza di tale danno e il nesso causale con il contesto di lavoro.
Ebbene, secondo i giudici della Cassazione, la corte territoriale esattamente applicando tale regola e sulla base delle allegazioni e delle prove acquisite in giudizio, aveva ritenuto non provato che le singole condotte denunciate, fossero state connotate da un’emarginazione o da un intento persecutorio del datore di lavoro.
Nella sostanza aveva escluso che il comportamento datoriale fosse stato caratterizzato da iniziative che potessero ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene”.
Quanto, invece, al lamentato progressivo demansionamento, la stessa Corte di merito non aveva potuto compiere un puntuale accertamento, dal momento che il lavoratore aveva omesso di allegare l’esatta descrizione delle mansioni svolte in precedenza.
Per tutti queste ragioni, la decisione impugnata è stata confermata e respinto in via definitiva, il ricorso del lavoratore dipendente.

La redazione giuridica

 
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