Danno per il contagio da epatite HCV, si al criterio della proporzione

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indennizzo per emotrasfusioni infette

No al criterio equitativo puro nella determinazione del danno per il contagio da epatite HCV patito da un uomo che aveva contratto la patologia quale conseguenza di emotrasfusione

Con l’ordinanza n. 8532/2020 la Suprema Corte di è pronunciata sul ricorso presentato dagli eredi di un uomo che aveva convenuto in giudizio  il Ministero della Salute chiedendo il risarcimento del danno per il contagio da epatite HCV quale conseguenza di emotrasfusione. L’istanza era stata respinta sia in primo grado che in appello.

La Corte territoriale, in particolare, aveva osservato che, stante la carenza probatoria circa il decorso della malattia, essendo stato prodotto solo un esame di laboratorio dell’8 marzo 1993 attestante la positività al contagio da virus HCV, la liquidazione per i postumi invalidanti dell’80% doveva essere fatta come se essi si fossero stabilizzati alla data della CTU, cioè al 15 aprile 2005, allorquando l’uomo aveva 84 anni. Sicché, essendo deceduto in data 4 gennaio 2007, all’età di 86 anni, il paziente era sopravvissuto meno di due anni rispetto alla data in cui risultava provato il consolidarsi dei postumi permanenti.

Secondo il Giudice di secondo grado, inoltre, considerato che il danno biologico doveva essere correlato alla durata della vita effettiva, non era utilizzabile il criterio della proporzione, perché il consolidamento dei postumi ed il decesso erano avvenuti quando aveva più di 80 anni ed aveva superato l’aspettativa di vita;  pertanto, il danno doveva essere liquidato con il criterio equitativo puro, nella misura di Euro 30.000,00 all’attualità e comprensiva degli interessi compensativi.

Infine, avendo l’uomo percepito l’indennizzo ai sensi della legge 210 del 1992 per una somma pari all’attualità ad 88.916,71 euro e dovendo tale somma essere detratta da quella dovuta a titolo di risarcimento, il saldo era negativo.

Nel ricorrere per cassazione gli eredi eccepivano che il giudice di appello non avesse fatto applicazione delle tabelle del Tribunale di Milano sulla base dell’erroneo argomento che sarebbe stata superata l’aspettativa media di vita, laddove invece la durata della vita media deve essere considerata per ogni singola fascia di età e che essendo la vita media pari a 82 anni, per una persona che ha superato la soglia degli 80 anni vi è un’aspettativa di vita di circa 12 anni in più.

La Cassazione ha ritenuto di condividere le argomentazioni proposte ritenendo fondato il motivi di doglianza. Secondo gli Ermellini, la domanda era stata proposta per l’invalidità permanente ed il giudice di merito avrebbe dovuto fare applicazione, per la liquidazione del relativo danno, delle tabelle del Tribunale di Milano, munite di efficacia para-normativa in quanto concretizzazione del criterio della liquidazione equitativa previsto dall’art. 1226 cod. civ., e non applicare un criterio equitativo puro, privo peraltro di parametri di riferimento.

L’intervenuto decesso della parte comportava, tuttavia, che la valutazione probabilistica connessa all’ipotetica durata della vita del soggetto danneggiato andasse sostituita con quella del concreto danno effettivamente prodottosi.

Cosicché l’ammontare del danno biologico che gli eredi richiedevano iure successionis doveva essere calcolato non con riferimento alla durata probabile della vita della vittima, ma alla sua durata effettiva.

“Il danno tabellarmente determinato – chiariscono dal Palazzaccio – dovrà pertanto dal giudice di merito essere proporzionalmente ridotto avuto riguardo al tempo di effettiva sopravvivenza del danneggiato. In particolare il giudice di merito dovrà adottare il criterio della proporzione, secondo cui il risarcimento che si sarebbe liquidato a persona vivente sta al numero di anni che questi aveva ancora da vivere secondo le statistiche di mortalità, come il risarcimento da liquidare a persona già defunta sta al numero di anni da questa effettivamente vissuti tra l’infortunio e la morte”.

La redazione giuridica

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