Decompressione da cui è derivata lesione della radice nervosa è quanto lamentato dalla paziente in danno della Struttura Sanitaria e dei Medici (Tribunale di Rimini, Sentenza n. 972/2021 del 05/11/2021 RG n. 3835/2018).

Il CTU ha evidenziato che eseguire la decompressione, senza lesionare la radice nervosa non è affatto impossibile, anzi, è ciò che si verifica nel 92% dei casi, in cui, appunto, il chirurgo riesce a decomprimere la radice nervosa senza traumatizzarla.

La paziente chiama a giudizio la Struttura e i Sanitari per sentirli condannare, in solido tra loro, al risarcimento del danno cagionatole dall’intervento di decompressione e stabilizzazione mediante laminectomia L4 -L5, cui era stata sottoposta per il trattamento della stenosi del canale vertebrale, associata a spondilolistesi allo stesso livello, in quanto malamente eseguito e non preceduto da adeguata informazione.

In sintesi, la donna lamenta la errata esecuzione dell’intervento di decompressione e l’omissione di consenso informato.

L’intervento di decompressione determinava la lesione della radice L5 destra, con conseguente paralisi della dorsiflessione del piede destro e deficit sensitivo, esiti iatrogeni già accertati nell’ambito del procedimento per ATP, incardinato dinanzi all’intestato Tribunale, da parte del CTU, che – tuttavia – erroneamente li qualificava come complicanze non prevenibili dell’intervento.

Il profilo dell’omesso consenso informato viene ritenuto infondato.

Il danno derivante dalla violazione del diritto alla corretta informazione terapeutica non costituisce un danno in re ipsa, ma al contrario può essere riconosciuto soltanto a fronte della piena prova dei pregiudizi effettivamente patiti dal paziente e della loro genesi sul versante eziologico, ovvero della loro derivazione causale dall’omessa o inadeguata informazione.

Nella specie, parte attrice non ha dimostrato, e neppure allegato, che – ove adeguatamente informata dei rischi dell’intervento – non lo avrebbe affrontato, o avrebbe affrontato diversamente gli esiti infausti dell’operazione.

Al contrario, deve ritenersi altamente probabile che la paziente vi si sarebbe comunque sottoposta, anche se pienamente consapevole dei rischi, considerato che, in mancanza, avrebbe verosimilmente perso la capacità di deambulare, come chiarito dal CTU.

Nel settembre del 2014, la paziente si sottoponeva ad accertamenti diagnostici a causa di ricorrenti parestesie agli arti inferiori (sensazione di scosse elettriche che si irradiavano dalla zona lombo -sacrale) e lombosciatalgia; gli esami accertavano una grave artrosi disco -somatica e la gravissima stenosi del canale vertebrale a livello L4 -L5, associata a spondolistesi, dunque, rivelavano che la sintomatologia avvertita era collegata alla compressione delle radici nervose contenute nel canale lombare ristretto su base artrosica, di talchè l’indicazione era quella di eseguire intervento di decompressione.

Per il trattamento di tali problematiche, l’attrice si rivolgeva, in regime di libera professione, al Sanitario convenuto il quale, difatti, poneva indicazione di urgente intervento di decompressione delle strutture nervose e di stabilizzazione.

In data 5.2.2015, la paziente veniva sottoposta, presso la struttura convenuta, a intervento chirurgico di decompressione delle strutture nervose, attraverso emilaminectomia L4 -L5, associata ad asportazione del legamento spinoso e del legamento giallo e di stabilizzazione, attraverso posizionamento osseo, senza impianto di viti e barre.

Subito dopo l’intervento, la paziente presentava un deficit sensitivo e motorio dell’arto inferiore destro, associato a ridotta sensibilità e impossibilità di flettere il piede, riconducibile sostanzialmente a un aggravamento del deficit radicolare, cui il Sanitario non faceva cenno nel referto del controllo post -operatorio.

Viene ritenuto accertato il nesso eziologico tra la condotta dei sanitari e il danno, considerato che il CTU ha chiarito che “il danno radicolare è un danno iatrogeno e che è stato causato dalle manovre chirurgiche sulla radice L5, dunque, il danno è conseguito a un traumatismo delle strutture nervose cagionato dal chirurgo che maneggiava la radice nervosa e che l’ha lesionata in modo irreversibile.”

Non è sufficiente dimostrare che l’evento dannoso per il paziente costituisca una “complicanza”, rilevabile nella statistica sanitaria, dovendosi ritenere tale nozione – indicativa nella letteratura medica di un evento, insorto nel corso dell’iter terapeutico, astrattamente prevedibile ma non evitabile – priva di rilievo sul piano giuridico, nel cui ambito il peggioramento delle condizioni del paziente può solo ricondursi ad un fatto o prevedibile ed evitabile, e dunque ascrivibile a colpa del medico, ovvero non prevedibile o non evitabile, sì da integrare gli estremi della causa non imputabile.

Ergo, i convenuti avevano l’onere di dimostrare l’impossibilità della prestazione (dunque, l’impossibilità di curare la paziente) dovuta a causa non imputabile; i sanitari dovevano, dunque, dimostrare l’insorgenza di una condizione patologica non trattabile, di cui non si potevano arrestare, né attenuare gli effetti.

Il CTU ha evidenziato che eseguire l’intervento di decompressione senza lesionare la radice nervosa non è affatto impossibile, anzi, è ciò che si verifica nel 92% dei casi, in cui, appunto, il chirurgo riesce a decomprimere la radice nervosa senza traumatizzarla.

Sussiste, dunque, la responsabilità dei sanitari convenuti, che sono tenuti a risarcire il danno patito.

Nella specie, la struttura non ha dimostrato che il danno patito sia imputabile in via esclusiva a una condotta del neurologo totalmente imprevedibile, e di tale gravità, da doversi considerare avulsa dal programma terapeutico predisposto e con questi condiviso, sicché la responsabilità non potrà che considerarsi ripartita paritariamente nei rapporti interni tra medico e struttura.

La domanda risarcitoria della paziente viene accolta.

Avv. Emanuela Foligno

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