Riconosciuto a un lavoratore il ristoro del danno non patrimoniale per il demansionamento professionale subito

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale.

Lo ha ricordato, allineandosi alla giurisprudenza di legittimità, la Cassazione nell’ordinanza n. 28810/2020, pronunciandosi sul ricorso di un lavoratore che aveva convenuto in giudizio la datrice deducendo di essere stato demansionato e di averne ricevuto un danno anche alla salute e chidendo la condanna della convenuta al risarcimento del danno sofferto.

In primo grado  il Tribunale, pur accertando il demansionamento, aveva escluso il mobbing denunciato, respingendo la domanda risarcitoria per mancanza di prova di un danno derivante dall’inadempimento datoriale se non con riguardo al danno biologico quantificato nella misura del 6% e liquidato sulla base delle tabelle del Tribunale di Milano in € 8.278,00.

La Corte di appello, nel rigettare l’appello  principale della datrice, aveva parzialmente accolto il ricorso incidentale proposto dall’attore riformando la sentenza nella parte in cui aveva quantificato il danno non patrimoniale da dequalificazione, quantificandolo nella misura del 10% della retribuzione dovutagli sino alla proposizione del ricorso di primo grado.

Il lavoratore, tuttavia, si rivolgeva alla Suprema Corte deducendo che la sentenza impugnata, pur avendo riconosciuto l’esistenza anche di un danno alla professionalità, stante l’accertata situazione di sostanziale inattività nel periodo in esame, non ne aveva tenuto doverosamente conto nello stabilire la misura del danno da liquidare. A suo avviso, il Collegio distrettuale avrebbe confuso la forzata inattività cui era stato costretto il ricorrente con la fattispecie meno grave del demansionamento, quantificando nella misura del 10%; un danno che era ben più importante, stante il riflesso della forzata inattività su diritti quali l’integrità personale, la salute, il diritto al lavoro ed alla dignità umana e professionale che, in tal modo, non erano stati integralmente ristorati sebbene, dalle prove assunte in giudizio e dalle osservazioni svolte dal CTU, fosse risultata dimostrata la loro esistenza e ne fosse agevolmente anche presumibile la loro importanza stante il protrarsi dell’inadempimento datoriale fino alla cessazione del rapporto con il proprio pensionamento.

Inoltre, la Corte di merito avrebbe erroneamente limitato il risarcimento del danno alla data di presentazione del ricorso introduttivo del giudizio senza considerare che, come era stato allegato nel corso del giudizio stesso, il licenziamento del dipendente decorrente dal giorno successivo alla data del compimento del sessantesimo anno, era stato dichiarato illegittimo e posticipato e che perciò, per aversi un pieno ristoro, il danno andava calcolato fino alla nuova data.

I Giudici Ermellini, nel respingere il ricorso, hanno precisato che la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale può essere offerta con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento ed assume in tal senso rilievo la prova per presunzioni.

Pertanto, dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) si può, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno.

In definitiva, escluso che il pregiudizio sia in re ipsa collegato all’esistenza della dequalificazione, il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa.

Nel caso in esame la sentenza del Collegio distrettuale si era attenuta ai principi sopra enunciati ed aveva ricostruito complessivamente i fatti allegati accertando l’incidenza del demansionamento e quantificando, sulla base del suo prudente apprezzamento del quadro probatorio sottoposto alla sua valutazione, la misura del danno da riconoscere.

Hai vissuto una situazione simile? Scrivi per una consulenza gratuita a redazione@responsabilecivile.it o invia un sms, anche vocale, al numero WhatsApp 3927945623

Leggi anche:

Mobbing e demansionamento del dirigente medico

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui