L’accertamento del mobbing comporta il riscontro di un sistematico e doloso sopruso finalizzato a danneggiare il lavoratore e del nesso causale tra il pregiudizio lamentato e detto contegno (Tribunale di Cosenza, sez. Lavoro, sentenza n. 2028 del 4 dicembre 2020)

Con ricorso ex art. 414 cpc nei confronti dell’Azienda Ospedaliera  la ricorrente esponeva:

  • di essere stata assunta nel 2001 come dirigente medico e di aver prestato servizio a Castrovillari,
  • di essere stata successivamente trasferita a Cosenza in qualità di responsabile del Centro ascolto,
  • che fino al 2018  dipendeva dalla UOC di Medicina legale mentre a tutt’oggi fa parte del Dipartimento di salute Mentale,
  • che le sue attività erano rimaste invariate ed esercitate sempre nei locali della medicina legale anche se gran parte del personale sanitario addetto all’espletamento dell’attività era venuto meno per motivi pensionistici  senza essere sostituito,
  • di aver richiesto al direttore del Dipartimento l’assegnazione di personale senza avere un riscontro positivo,
  • che il dirigente della Medicina Legale, presso i cui locali svolge la sua attività, aveva posto in essere una serie di comportamenti ostruzionistici impedendo l’effettuazione delle visite necessarie e previste per il rilascio del porto d’armi, patenti speciali, idoneità lavorative e adozioni,
  • che in parti colare le richieste degli utenti di ricevere la visita psichiatrica non venivano né prenotate né protocollate e pertanto non potevano essere evase,
  • che a decorrere dal mese di settembre 2019 il personale della Medicina legale ritenendo discrezionale la visita psichiatrica non facevano sottoporre a tale visita gli utenti con la conseguenza del suo isolamento professionale e umano,
  • che in data 8.10.2018 aveva richiesto al Direttore Generale dell’ASP l’assegnazione presso la sua unità operativa di uno psicologo e di un amministrativo per lo svolgimento dell’attività lavorativa della struttura ma senza ottenere riscontro,
  • che in data 23.4.2019 il direttore del Dipartimento di salute Mentale e delle dipendenze la nominava quale referente di attività specialistica in attesa di essere stabilizzata con concorso interno che veniva bandito ma non espletato,
  • che in data 19.6.2019 il Dirigente della Medicina legale, nonostante l’attività era stata svolta per più di 20 anni presso e in collaborazione con la Medicina Legale, inoltrava ordine di rilascio dei locali utilizzati dalla ricorrente per esigenza di servizio,
  • che ciò era avvenuto in assenza di un atto aziendale e in assenza di reali esigenze atteso che diversi locali erano rimasti inoccupati,
  • che tali circostanze determinavano l’impedimento a svolgere le proprie precedenti funzioni concretizzando una dequalificazione o un demansionamento.

Si costituisce l’ASP chiedendo il rigetto del ricorso.

Il Giudice del Lavoro rigetta il ricorso della lavoratrice.

Riguardo il demansionamento, viene evidenziato che lo stesso si manifesta quando il datore di lavoro adibisce il lavoratore a mansioni inferiori rispetto a quelle contrattuali o a mansioni che rallentano o bloccano del tutto la professionalità del dipendente.

In tema di pubblico impiego privatizzato, l’art. 52, comma 1, del d.lgs. 30 marzo 2001, n.165, che sancisce il diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti, ha recepito un concetto di equivalenza formale ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva e non sindacabile dal Giudice.

Ne consegue, che condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita (Cass. n. 11405 del 2010).

Ad ogni modo, quando viene denunciato un demansionamento il lavoratore ha l’onere di allegare circostanze significative dell’inadempimento datoriale.

Nello specifico, il lavoratore ha l’onere di allegare la descrizione delle mansioni da ultimo assegnate e il raffronto tra queste e i compiti svolti prima del presunto demansionamento. Rispetto ai fatti allegati il datore di lavoro dovrò prendere posizione in maniera circostanziata, senza limitarsi ad una generica contestazione.

La lavoratrice ricorrente non ha dedotto nulla sul punto essendosi limitata ad allegare che il dirigente di Medicina legale poneva in essere comportamenti ostruzionistici impedendo l’effettuazione delle visite necessarie per il rilascio del porto d’armi, delle patenti speciali e per l’idoneità lavorativa, ma nulla deduce sulle mansioni che doveva svolgere e su quelle concretamente svolte.

Riguardo al mobbing lamentato dalla lavoratrice il Tribunale osserva che lo stesso è da ritenersi concretizzato in presenza di aggressione, esclusione, emarginazione intenzionale, distruzione psicologica sociale e professionale della vittima.

I “soprusi” devono essere ripetuti ed in particolare devono essere finalizzati a isolare il dipendente dall’ambiente di lavoro e il cui effetto sia quello di intaccare l’equilibrio psichico del lavoratore.

Ad ogni modo, l’accertamento del mobbing comporta il riscontro di un sistematico e doloso sopruso finalizzato a danneggiare il lavoratore e del nesso causale esistente tra il pregiudizio lamentato e detto contegno.

L’onere probatorio è a carico del lavoratore.

Ricorda il Tribunale che la Suprema Corte (n.10037/2015) ha individuato delle linee guida per riconoscere il mobbing stabilendo dei parametri con cui la vittima deve provare di essere stata danneggiata sul lavoro: ambiente, durata, frequenza, tipo di azioni ostili, dislivello tra antagonisti, andamento per fasi successive, intento persecutorio.

Pertanto, ai fini della configurazione del mobbing devono ricorrere tutti i sette parametri tratteggiati.

In sintesi, le vessazioni devono dunque avvenire sul luogo di lavoro, i contrasti e le mortificazioni devono durare per un congruo periodo ed essere reiterate e molteplici.

Oltre a ciò, vi deve anche essere l’intento persecutorio di tormentare il dipendente.

La lavoratrice non ha fornito nessuna prova in ordine alla presenza di un’attività costantemente persecutoria secondo i parametri stabiliti dalla Corte di Cassazione.

Le uniche circostanze allegate inerenti la mancata possibilità di effettuare le visite mediche e la richiesta di rilascio dei locali occupati non rientrano nel disegno di mobbing.

Non risulta dunque provato che la lavoratrice sia stata destinataria di condotte integranti molestie, boicottaggi e persecuzioni psicologiche.

Il ricorso viene integralmente rigettato.

Avv. Emanuela Foligno

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