La paziente citava in giudizio il chirurgo estetico per il danno biologico cagionato dagli interventi di mastopessi, mastoplastica additiva e addominoplastica.

La vicenda

La paziente deduce inesatta esecuzione degli interventi di chirurgia estetica (mastopessi, mastoplastica additiva e addominoplastica), eseguiti in data 7 maggio 2011 presso una Casa di cura di Torino, previo consulto con “La Clinique Cosmetic Surgery”.

La CTU svolta in primo grado accertava il danno biologico permanente (12%) e la inesatta esecuzione degli interventi al seno e all’addome della donna. Quindi il Giudice, nella liquidazione del danno (complessivamente per 55.000 euro), riconosceva equitativamente la personalizzazione del danno.

Invece, la corte di Appello di Torino escludeva l’aumento per la personalizzazione riconosciuta dal primo Giudice e rideterminava il danno complessivo in 52.947 euro.

La Consulenza Tecnica d’Ufficio

In particolare, riguardo la responsabilità professionale contestata al chirurgo, all’esito della CTU era stato accertato:

  • che l’intervento al seno era stato eseguito con corretta tecnica chirurgica in conformità alle leges artis e gli inestetismi da esso causati (cicatrici peri-areolari e doppio solco inframammario: c.d. “double bubble”) costituivano complicanze non evitabili, anche in ragione della presenza di una preesistente malformazione per mammella tuberosa. Tuttavia, rispetto a questo intervento era stato inesattamente adempiuto l’obbligo informativo, non essendo stata documentata alcuna comunicazione circa le caratteristiche della preesistente malformazione, le possibili complicanze ad essa dovute (poi effettivamente verificatesi) e i rischi specifici, con particolare riguardo alle prevedibili possibilità di successivi interventi di revisione chirurgica.
  • invece, l’intervento all’addome, sebbene preceduto dal corretto adempimento dell’obbligo informativo, era stato imperitamente eseguito nella fase di progettazione/disegno della linea di incisione e di “pinzamento” della cute, con conseguente eccessiva asportazione di tessuto cutaneo, donde erano residuati postumi costituiti da cicatrici e grave dismorfismo della regione ombelicale. Postumi che, conformemente alle valutazioni peritali e contrariamente a quanto sostenuto dal chirurgo, non potevano essere ascritti all’asserito consumo di sigarette e all’uso improprio della guaina elastica addominale compressiva post-chirurgica da parte della paziente.

Il giudizio della Suprema Corte

Il chirurgo censura la sentenza d’appello poiché basata unicamente sulla relazione della CTU svolta in primo grado, ed osserva che il Consulente non potrebbe mai indagare su questioni non prospettate dalle parti, né accertare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione. Sostiene che nella CTU vi sarebbero deduzioni e presunzioni su fatti posti a fondamento della domanda dell’attrice e delle eccezioni del convenuto (in particolare: l’omessa o errata esecuzione della c.d. manovra di “pinzamento” nella fase progettuale dell’intervento; le potenziali cause o concause delle lesioni, costituite dal comportamento della paziente; la completezza del consenso informato da essa acquisito per l’intervento al seno) il cui accertamento non competeva ai CTU, ma era onere delle parti provare, trattandosi di circostanze storiche accertabili con i tradizionali mezzi di prova.

Censura, inoltre, la decisione d’appello perché, pur avendo accertato, da un lato, “l’assenza di responsabilità del chirurgo per gli inestetismi residuati al seno” e pur avendo preso atto, dall’altro, “che l’indicazione della misura di danno biologico fornita dai CTU – e recepita in sentenza – si riferisse effettivamente al complesso degli inestetismi rilevati (seno più addome)”, ha confermato la valutazione del danno biologico imputabile al professionista nella misura del 12% “in conseguenza del rilievo di deficit informativo nei confronti della paziente, limitatamente all’intervento al seno, che si è risolto nel giudizio di responsabilità del chirurgo anche per tale complicanza”.

Violazione di due distinti diritti

In sostanza, il chirurgo sostiene che l’inadempimento dell’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente è autonomo rispetto a quello inerente al trattamento terapeutico, comportando la violazione di due distinti diritti: l’uno relativo alla libertà di autodeterminazione e l’altro alla salute. Con la conseguenza che la violazione del principio del consenso informato sotto il profilo della lesione del diritto all’informazione e della libera e consapevole autodeterminazione, ex art. 32 Cost., costituisce un’autonoma e differente causa petendi della pretesa risarcitoria azionata.
La paziente non ha proposta autonoma e specifica domanda di risarcimento per lesione all’autodeterminazione, quindi la Corte di Appello da un lato ha riconosciuto un risarcimento non dovuto per gli esiti di un intervento (quello al seno) correttamente eseguito; dall’altro, agganciando tale risarcimento all’accertata violazione dell’obbligo informativo, ha pronunciato oltre i limiti della domanda, incorrendo nel vizio di extra-petizione.

Questa censura è corretta.

La paziente aveva allegato, quali conseguenze dannose non patrimoniali riportate in seguito al dedotto inadempimento del chirurgo, esclusivamente quelle biologico-estetiche (non anche quelle derivanti dalla lesione del diritto all’autodeterminazione). Ma risulta altresì che il danno biologico-estetico era imputato unicamente alla violazione delle leges artis della prestazione professionale e non anche alla violazione dell’obbligo informativo, causa petendi del tutto estranea all’originaria domanda risarcitoria.

La diversa causa petendi

Tale statuizione “sfavorevole” non è stata impugnata dalla donna in appello e dunque aveva acquisito efficacia di giudicato, sicché illegittimamente è stata rimessa in discussione in grado d’appello, con l’osservazione da reputarsi svolta non solo extra petita ma anche in violazione del principio del giudicato, che “la tematica del consenso informato” era stata “introdotta in giudizio” ed era “entrata nel contraddittorio a seguito delle eccezioni del convenuto, cui l’attrice aveva replicato con la memoria di cui all’art.183, sesto comma, cod. proc. civ.”.

In mancanza di specifica domanda, inerente la violazione della corretta informazione, la Corte d’Appello non poteva fondare su tale violazione l’accertamento del diritto al risarcimento del pregiudizio biologico-estetico conseguito all’intervento al seno. Piuttosto, una volta accertato che tale intervento era stato correttamente eseguito, avrebbe dovuto scomputare, dal danno biologico complessivo risarcibile, quello imputabile al detto intervento, liquidando il risarcimento sulla base dei soli postumi dell’intervento all’addome (Cassazione Civile, sez. III, 24/04/2024, n.11137).

Avv. Emanuela Foligno

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