Intervento di chirurgia estetica e lamentata carenza del consenso informato riguardo le complicanze dell’intervento con particolare riferimento alla lesione del nervo spinale accessorio dx.
In tutti i gradi di giudizio la domanda viene respinta in quanto la paziente non ha collegato la violazione del consenso informato ad un pregiudizio diverso dal pregiudizio alla salute (Cassazione Civile, sez. III, 02/04/2024, n.8640).
La vicenda
La donna cita in giudizio, innanzi al Tribunale di Milano, il chirurgo e l’Istituto Suore Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, quale titolare della Casa di Cura C., chiedendo il risarcimento del danno per violazione del consenso informato.
Il 12 gennaio 1999, la paziente era stata sottoposta presso la Casa di Cura ad un intervento di lifting cervico-facciale e blefaroplastica superiore e inferiore. Appena iniziato l’intervento sulla parte sinistra del volto, si era verificata una grave emorragia, con interruzione dell’operazione, con referto in epoca successiva della lesione del nervo spinale accessorio destro.
Il 14 dicembre 1999, la paziente era stata sottoposta ad un ulteriore intervento chirurgico per portare a termine il lifting facciale. La stessa promuoveva un primo giudizio per il risarcimento del danno subito per la cattiva esecuzione dell’intervento chirurgico. La CTU escludeva l’esistenza di responsabilità professionale ed evidenziava la carenza del consenso informato sulla complicanza verificatasi, per cui in sede di precisazione delle conclusioni era stata proposta la nuova domanda relativa al consenso informato, domanda ritenuta tardiva dal Tribunale con il rigetto dell’originaria domanda. Il nuovo giudizio era stato quindi introdotto per il danno derivato dalla violazione del consenso informato.
Il Tribunale rigetta la domanda per la preclusione derivante dal giudicato, con conferma in appello della statuizione. Proposto ricorso per cassazione, con ordinanza n. 8756 del 2019 viene cassata la decisione di appello con rinvio al Giudice del merito. Con sentenza di data 11 dicembre 2020 la Corte d’appello di Milano rigetta l’appello.
La motivazione de giudici di secondo grado
I Giudici di Appello evidenziano: “In primo luogo, è pacifico che la paziente anche quando ha cominciato ad avvertire consapevolmente i sintomi invalidanti della lesione in questione (cioè dopo il secondo intervento di lifting del 14/12/1999) non ha mai lamentato che, qualora fosse stata correttamente informata del rischio concretizzatosi, non si sarebbe sottoposta agli interventi di lifting.
In secondo luogo, anche nella lettera di messa in mora, pur evidenziando anche difficoltà di movimento e dolori alla spalla destra, si è lamentata essenzialmente del risultato giudicato scadente dell’intervento sotto l’aspetto estetico, ma non ha contestato di non essere stata informata della possibilità che, in conseguenza dell’intervento, si sarebbero potute verificare anche le lamentate difficoltà di movimento e i dolori alla spalla. In terzo luogo, la paziente ha promosso la prima causa nel 2001, sostenendo la non corretta esecuzione degli interventi di lifting e non già la carenza di informazione in ordine ai rischi che, una volta avveratisi, avevano determinato il danno dalla stessa lamentato, nonostante che già a giugno 2000 le fosse stata diagnosticata la lesione del nervo spinale accessorio destro (rischio della cui sussistenza, a suo dire, non sarebbe stata informata) e che la consulenza medica dell’agosto 2000, da lei richiesta, avesse accertato che tale lesione (e quindi l’invalidità che ne era derivata) era stata causata dall’intervento di lifting. In quarto luogo, sono stati i CTU (nominati nel primo processo), e non la paziente, ad evidenziare “si nota infine che è del tutto carente un reale consenso informato riguardo alla prospettazione della complicanza verificatasi (esiste solo un generico e semplicistico modulo in cui la pz. sottoscrive di essere stata informata)”.
Il ricorso in Cassazione
La donna si rivolge alla Cassazione e osserva che il secondo intervento chirurgico era finalizzato ad un tentativo (peraltro mal riuscito) di ripristino delle condizioni di salute della paziente. Inoltre, deduce che i Giudici di appello avrebbero erroneamente ritenuto che il consenso informato può essere presunto e che ella apprendeva della carenza del consenso informato solo grazie alla CTU svolta nel primo giudizio.
La Cassazione respinge le censure.
Innanzitutto, il Giudice di merito può, avvalendosi della presunzione semplice, giungere alla conclusione che la paziente, pur adeguatamente informata sui rischi dell’intervento, si sarebbe comunque sottoposta ad esso, disattivando così l’efficienza eziologica, rispetto all’evento dannoso per la salute, della mancata informazione.
Se ricorrono il consenso presunto e il danno iatrogeno, ma non la condotta inadempiente o colposa del medico nell’esecuzione della prestazione sanitaria, il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, all’autodeterminazione è risarcibile qualora il paziente alleghi e provi che dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, diverse dal danno da lesione del diritto alla salute, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente (in tal senso la Corte di Cassazione dà continuità al principio ormai consolidato, n. 16633 del 2023).
Il nesso eziologico
La donna non ha collegato la violazione del consenso informato ad un pregiudizio diverso dal pregiudizio alla salute. Nella sua censura, per via della violazione del consenso informato, il collegamento eziologico viene stabilito fra l’intervento sanitario ed il danno alla salute. Ciò dimostra che la violazione della libertà di autodeterminarsi è stata esclusivamente rapportata dalla paziente al danno alla salute, ma, da questo punto di vista, emerge l’inefficienza eziologica dell’informazione mancata, posto che, anche in presenza dell’informazione, la ricorrente si sarebbe sottoposta all’intervento, secondo quanto accertato dal Giudice del merito.
Ergo, la questione non è l’adempimento dell’obbligo informativo, ma il nesso eziologico fra l’allegato inadempimento al detto obbligo ed il pregiudizio alla salute, nel senso che la paziente, se informata, non si sarebbe sottoposta all’intervento da cui è derivato il pregiudizio.
Tale nesso eziologico, in quanto fatto costitutivo, integra l’onere probatorio della parte attrice, e l’accertamento del Giudice del merito è stato nel senso che esso non è stato assolto, risultando anzi, per via presuntiva, la prova contraria.
Avv. Emanuela Foligno