“Ai fini della configurabilità del reato di abusivo esercizio della professione medico-chirurgica, non assume alcun rilievo il carattere non convenzionale e sperimentale del tipo di trattamento terapeutico praticato, se questo presenti caratteristiche di invasività e incidenza sull’organismo del paziente i cui effetti possono essere valutati solo da professionisti muniti di apposita abilitazione” (Cass. pen., sez. IV, n. 28174 depositata il 21 luglio 2021).

La Corte d’Appello di Torino, riduceva a 4 mesi di reclusione la pena, riformava parzialmente la pronuncia di condanna del Tribunale, emessa nei confronti del Dermatologo imputato, ritenuto responsabile di avere cagionato lesioni personali colpose, consistenti in un’ulcera all’avambraccio sinistro, ad una donna, con il fine di rimuoverle un tatuaggio tramite luce pulsata, esercitando abusivamente la professione di Medico.

Il Dermatologo ricorre in Cassazione lamentando che “la necessità del titolo abilitativo per l’attività posta in essere era stata desunta dalla Circolare del Ministero della Sanità, mentre la Corte territoriale avrebbe affermato che nessun provvedimento prende in considerazione l’attività di rimozione dei tatuaggi, desumendone la natura di attività a carattere medico-chirurgico in assenza di specifica disciplina”.

In argomento la Suprema Corte ha affermato, a più riprese, che “il bene tutelato dal reato è rappresentato dall’interesse generale a che determinate professioni vengano esercitate soltanto da soggetti in possesso di una speciale autorizzazione amministrativa; anche se ciò non esclude che possano assumere la veste di danneggiati dal reato quei soggetti che, in via mediata e di riflesso, abbiano subito un pregiudizio dal reato e che l’art. 348 c.p. è norma penale in bianco, che presuppone l’esistenza di norme giuridiche diverse, qualificanti una determinata attività professionale, le quali prescrivono una speciale abilitazione dello Stato ed impongono l’iscrizione in uno specifico Albo, in tal modo configurando le cosiddette professioni protette”.

Ed ancora, le Sezioni Unite (11545/2011) hanno affermato “compito dell’interprete non è solo verificare se l’attività concretamente esercitata implichi il compimento di operazioni che solo chi è abilitato all’esercizio di una determinata professione può lecitamente eseguire. Ciò che concreta l’elemento materiale del reato è, infatti, il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorchè lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuità, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato”.

Facendo particolare riferimento alla rimozione di tatuaggi, pertanto, ai fini della configurabilità del reato di abusivo esercizio della professione medico-chirurgica, non rileva il carattere non convenzionale e sperimentale del tipo di trattamento terapeutico praticato, se questo presenta caratteristiche di invasività e incidenza sull’organismo del paziente, i cui effetti possono essere valutati solo da Professionisti muniti di apposita abilitazione.

Difatti, correttamente la Corte territoriale ha sottolineato che “per ottenere la rimozione di un tatuaggio, è necessario ricorrere all’intervento di un medico, non essendo corretto l’utilizzo della tecnica della luce pulsata, bensì quella del laser”.

Ad ogni modo, integra l’elemento materiale del reato l’avere assunto in qualità di Dermatologo l’incarico di rimuovere un tatuaggio, compiendo un’attività tipicamente riservata ad esercenti la professione Medica.

L’imputato, come risulta dalle sentenze di merito, si è qualificato come medico dermatologo ed ha assunto l’obbligazione di eseguire la rimozione di un tatuaggio, dunque di realizzare un obiettivo che tipicamente compete a medici specialisti in dermatologia o in chirurgia plastica, correttamente tale atto è stato qualificato come condotta tipica del reato contestato.

Erronea , invece, la sentenza impugnata con riguardo al trattamento sanzionatorio, avendo i giudici di merito omesso di applicare la riduzione per il rito abbreviato e tralasciato di fornire motivazione in merito alla censura concernente l’omessa applicazione delle circostanze attenuanti generiche.

Per tali motivi, la Suprema Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, e rinvia per nuovo esame sul punto ad altra Sezione della Corte d’Appello di Torino.

Avv. Emanuela Foligno

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