Nonostante la paziente avesse manifestato sintomi evidenti già durante le visite domiciliari, i medici non approfondirono con esami specialistici. La diagnosi errata e il ritardo nell’intervento cardiochirurgico hanno provocato danni irreparabili al cuore e il successivo decesso.
La Corte di Appello di Bologna riconosce la responsabilità dei due medici della Guardia Medica e liquida ai familiari della vittima oltre 250mila euro. Inutile il ricorso in Cassazione (Cassazione civile, sez. III, 13/06/2024, n.16572).
La diagnosi errata e il decesso
Vengono convenuti in giudizio la ASL di Bologna e due medici (Dottor BG e BP) per i danni derivanti dal decesso della paziente avvenuto in data 15 dicembre 2005. La sera del 23 aprile 2005 la paziente richiede l’intervento della guardia medica, il medico di turno, dott. BP recatosi in visita domiciliare, diagnosticava una epigastralgia. Anche il giorno seguente, avendo la paziente ricontattato la guardia medica, il medico di turno dott. BG confermò la diagnosi errata del giorno precedente.
Dopo una settimana la signora veniva condotta al pronto soccorso ove le veniva diagnosticato infarto miocardico in atto; seguiva trasferimento all’ospedale Sant’Orsola di Bologna ove rimase ricoverata sino al 29 luglio 2005, subendo un intervento chirurgico di sostituzione della valvola mitralica.
Dimessa e trasferita a domicilio, la paziente decedeva il 15 dicembre 2005 per i danni irreparabili subiti dal cuore in conseguenza del non tempestivo intervento cardiochirurgico effettuato tardivamente a causa della diagnosi errata iniziale formulata dai sanitari della guardia medica.
La vicenda giudiziaria
Il Tribunale di Bologna, dopo l’espletamento di due CTU medico-legali, rigetta la domanda ritenendo che, pur essendo altamente probabile la presenza di un infarto del miocardio già il 23 e 24 aprile (come desumibile dalla presenza di aneurisma postinfartuale rilevato dall’ecocardiogramma eseguito presso il Sant’Orsola il 3/5/2005) e pur risultando, conseguentemente, la diagnosi errata formulata dai sanitari della guardia medica intervenuti in visita domiciliare il 23 e 24 aprile. Nondimeno i medici della Guardia Medica non si erano trovati davanti un quadro sintomatologico chiaramente indicativo del dell’infarto del miocardio, in particolare essendo controversa e non dimostrata la circostanza che, oltre al dolore addominale e al vomito (sintomi che da soli non avrebbero potuto indirizzare verso la diagnosi di infarto in atto), la paziente avesse loro riferito anche un dolore dorsale che, invece, avrebbe imposto la diagnosi differenziale con una crisi infartuale.
A tale riguardo, il Tribunale ha ritenuto di non potere conferire determinante valenza alle deposizioni testimoniali della figlia e del marito della vittima, secondo i quali la paziente aveva riferito ai medici della guardia medica anche del dolore alla schiena, perché contrastanti con le risultanze emergenti dalla cartella clinica di accesso all’ospedale Sant’Orsola, in cui era annotato che il dolore dorsale era insorto improvvisamente il 3 maggio 2005.
Invece, la Corte di Bologna ha condannato l’Azienda Sanitarie e i due medici al pagamento della somma complessiva di Euro 265.518,98.
I Giudici di Appello hanno ritenuto, alla stregua del principio di non contestazione dei fatti, che doveva ritenersi acquisito il fatto che la paziente avesse accusato sin dall’inizio i sintomi indicati in atto di citazione, tra i quali la componente dorsale del dolore che, secondo la C.T.U. collegiale, era molto suggestiva per la patologia di infarto del miocardio.
Le deposizioni testimoniali
Hanno anche ritenuto che le deposizioni testimoniali del marito e della figlia dell’attrice (secondo le quali l’anziana paziente aveva riferito ad entrambi i sanitari della guardia medica i sintomi in questione), apparendo intrinsecamente coerenti e compatibili con le incontestate allegazioni in fatto di parte attrice, andavano rivalutate in rapporto a quelle emergenze istruttorie (dati anamnestici desunti dalla cartella clinica dell’ospedale Sant’Orsola) in considerazione delle quali il Tribunale aveva formulato il giudizio di irrilevanza probatoria.
In definitiva, essendo condiviso dai Consulenti del Giudice e delle parti che, se la componente dorsale del dolore fosse stata nota ai sanitari della guardia medica, certamente gli stessi avrebbero dovuto procedere alla richiesta di ulteriori accertamenti clinico-strumentali specialistici, in quanto la sintomatologia imponeva una diagnosi differenziata con la patologia anche di origine cardiaca, ne discendeva che l’errore diagnostico compiuto dai sanitari della guardia medica assumeva i caratteri di condotta negligente in correlazione causale con il successivo decesso della paziente.
Il ricorso in Cassazione
Giunta la questione in Cassazione, gli Ermellini, sul concetto di non contestazione, evidenziano che la doglianza riguarda un elemento valutativo riservato al giudice del merito, atteso che spetta ad egli apprezzare l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte.
Viene rammentato che, secondo pacifico insegnamento, il principio di non contestazione di cui all‘art. 115 c.p.c., se solleva la parte dall’onere di provare il fatto non specificamente contestato dal convenuto costituito, non esclude tuttavia che il Giudice, ove dalle prove comunque acquisite emerga la smentita di quel fatto o una sua diversa ricostruzione, possa pervenire ad un diverso accertamento.
Alla luce di tale principio non può essere stigmatizzato che il Giudice di Appello, dopo aver dato atto che la circostanza non era stata specificamente contestata dai convenuti, abbia dedicato ampio spazio alla valutazione del materiale istruttorio pertinente e idoneo a offrire elementi di giudizio, in un senso e nell’altro, sulla medesima circostanza.
In effetti è errata l’affermazione contenuta in sentenza secondo cui al contenuto della cartella clinica redatta dai sanitari del pronto soccorso dell’Ospedale S. Orsola in occasione del ricovero il 5 maggio 2005, in particolare là dove si riferisce la dichiarazione che è stata ad essi resa dalla odierna ricorrente, non può riconoscersi la fede privilegiata di cui all’art. 2700 c.c., per essere questa riservata (solo) alle “attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento”.
Il referto del pronto soccorso
Alla luce della norma codicistica sopra citata, “il referto del pronto soccorso di una struttura ospedaliera pubblica è atto pubblico assistito da fede privilegiata e, come tale, fa piena prova sino a querela di falso della provenienza dal pubblico ufficiale che lo ha formato, delle dichiarazioni rese al medesimo, e degli altri fatti da questi compiuti o che questi attesti avvenuti in sua presenza restando, invece, non coperte da fede privilegiata le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione in essa espresse”.
Tuttavia, come precisato numerose volte dalla giurisprudenza, il valore di prova legale riguarda il solo dato estrinseco della dichiarazione, ossia il fatto che quella dichiarazione fu effettivamente resa, e lo fu con quel contenuto rappresentato nell’atto, non anche il valore probatorio intrinseco della dichiarazione medesima, ossia l’idoneità della stessa a dar prova del fatto che si tratta di provare (nella specie l’essere stato oppure no, il sintomo del dolore dorsale, rappresentato ai sanitari della guardia medica in occasione delle visite domiciliari del 23 e 24 aprile 2005).
E dunque “quella dichiarazione” ha la valenza di confessione stragiudiziale resa ad un terzo, la quale, ai sensi dell’art. 2735, primo comma, c.c., è liberamente valutabile dal giudice del merito. Ciò è proprio quello che hanno fatto i Giudici di appello.
Conclusivamente il ricorso viene rigettato.
Avv. Emanuela Foligno