La differenza tra “chance di sopravvivenza” e “rischio di mortalità”

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Viene attribuita all’Ospedale di Catanzaro e allo Pneumologo una errata diagnosi di faringo-tracheite in luogo di dissecazione dell’aorta di tipo A. All’apprezzamento della Corte di Cassazione viene demandato il travisamento in cui sarebbe incorsa la Corte calabrese tra il dato scientifico relativo alla percentuale di mortalità con quella di sopravvivenza (Corte di Cassazione, III civile, sentenza 27 giugno 2024, n. 17821). Molto interessante questa decisione della Cassazione, che rimanda al Giudice di merito che dovrà individuare e distinguere, considerata la confusione fra i due antitetici e inconciliabili concetti, i concetti di “chance di sopravvivenza” e di “rischio di mortalità”.

Il caso

Il paziente era soggetto cardiopatico già sottoposto a intervento chirurgico per “coartazione aortica” nel 1991 e i suoi familiari contestano che il medico avrebbe omesso indagini strumentali necessarie ed avrebbe tardivamente valutato gli esani che aveva prescritto nella data del 29/4/2003, in regime di day-hospital.

Il Tribunale di Catanzaro, espletata una prima CTU e dispostane la rinnovazione con nomina di diverso Consulente, rigettò le domande attoree con sentenza del 21/3/2017, per ritenuta carenza del nesso di causalità materiale. La Corte d’appello di Catanzaro rigettò il gravame proposto dagli eredi con sentenza del 13/6/2020, ritenendo che le chance di sopravvivenza del paziente al momento della condotta negligente del medico (individuata come concretizzatasi nella data del 30/4/2003), non fossero rilevanti in termini di serietà e apprezzabilità.

Il danno da perdita di chance di sopravvivenza

All’apprezzamento della Corte di Cassazione viene portata la contraddizione in cui sarebbe incorsa la Corte calabrese tra il dato scientifico relativo alla percentuale di mortalità e quella di sopravvivenza.

Sul danno da perdita di chance di sopravvivenza, con riferimento al caso concreto in cui il paziente è già deceduto al momento dell’introduzione del giudizio, anzitutto, la Cassazione richiama i recenti insegnamenti che hanno delineato l’ipotesi risarcitoria:

La vittima è già deceduta al momento dell’introduzione del giudizio da parte degli eredi. In questo caso non è concepibile, né logicamente né giuridicamente, un danno da perdita anticipata della vita trasmissibile iure successionis (Cass., 04/03/2004, n. 4400, Cass. 5641 del 2018, cit. e Cass., Sez. U., n. 15350 del 2015, cit.), non essendo predicabile, nell’attuale sistema della responsabilità civile, la risarcibilità del danno tanatologico.
Esemplificando, causare la morte di un ottantenne sano, che ha dinanzi a sé cinque anni di vita sperata, non diverge, ontologicamente, dal causare la morte d’un ventenne malato che, se correttamente curato, avrebbe avuto dinanzi a sé ancora cinque anni di vita. L’unica differenza tra le due ipotesi sta nel fatto che, nel primo caso, la vittima muore prima del tempo che gli assegnava la statistica demografica, mentre, nel secondo caso, muore prima del tempo che gli assegnava la statistica e la scienza clinica: ma tale differenza non consente di pervenire ad una distinzione morfologica tra le due vicende, così da affermare la risarcibilità soltanto della seconda ipotesi di danno. È possibile, dunque, discorrere (risarcendolo) di danno da perdita anticipata della vita, con riferimento al diritto iure proprio degli eredi, solo definendolo il pregiudizio da minor tempo vissuto ovvero da valore biologico relazionale residuo di cui non si è fruito, correlato al periodo di tempo effettivamente vissuto, secondo i parametri di cui si dirà (infra, sub 4.4. e ss.).

I danni risarcibili iure hereditario

In conclusione, nell’ipotesi di un paziente che, al momento dell’introduzione della lite, sia già deceduto, sono, di regola, alternativamente concepibili e risarcibili iure hereditario, se allegati e provati, i danni conseguenti:

  • a) alla condotta del medico che abbia causato la perdita anticipata della vita del paziente (determinata nell’an e nel quantum), come danno biologico differenziale (peggiore qualità della vita effettivamente vissuta), considerato nella sua oggettività, e come danno morale da lucida consapevolezza della anticipazione della propria morte, eventualmente predicabile soltanto a far data dall’altrettanto eventuale acquisizione di tale consapevolezza in vita.
  • b) Alla condotta del medico che abbia causato la perdita della possibilità di vivere più a lungo (non determinata né nell’an né nel quantum), come danno da perdita di chance di sopravvivenza. In nessun caso sarà risarcibile iure hereditario, e tanto meno cumulabile con i pregiudizi di cui sopra, un danno da perdita anticipata della vita con riferimento al periodo di vita non vissuta dal paziente”.

Le pretese azionate dagli eredi del paziente sono state correttamente inquadrate dalla Corte calabrese, con riguardo alla condotta del medico che (in tesi) causò la perdita della possibilità del paziente di vivere più a lungo, come danno da perdita di chance di sopravvivenza. Non è in discussione l’identificazione dell’oggetto della domanda dei congiunti, bensì il modo (lato sensu inteso) in cui la Corte d’appello ha governato le evenienze istruttorie.

Ciò posto, la Cassazione passa in analisi il giudizio controfattuale svolto dai Giudici di appello.

La ricostruzione dell’iter clinico

Il paziente “viene visitato in data 24 aprile 2003 dal medico curante, per l’insorgere di tosse, dispnea, vomito, ma soprattutto di un forte dolore in sede toracica, con irradiazione al dorso, regione scapolare, e al collo. (…) Il medico curante tratta il paziente con un diuretico e con alcuni analgesici e decontratturanti, ritenendo il dolore di natura osteo-muscolare (…).
La terapia sortisce un modico effetto (…) quanto alla sintomatologia dolorosa, mai comunque cessata del tutto, mentre non ha effetto alcuno sulla tosse, insistente e fastidiosa. Compare, inoltre, dopo un paio di giorni, un rialzo febbrile (…). Il paziente, medio tempore sospesa l’assunzione del diuretico, nel persistere dei sintomi, viene nuovamente visitato il 28 aprile 2003 dal medico curante, il quale richiede accertamenti cardiologici e pneumologici, contattando a tal fine lo pneumologo dell’Ospedale convenuto con cui concorda un appuntamento per il giorno successivo. Il 29 aprile viene disposto il ricovero in day hospital, le condizioni generali del paziente vengono descritte “buone” nell’esame obiettivo dello pneumologo, e come “’discrete” in quello del cardiologo. L’esame radiologico riscontra un “ingrandimento in toto dell’ombra cardiaca con tenue velatura del seno costo frenico a dx: nulla a sx”.

Tutti gli accertamenti vengono svolti nel day hospital del 29 aprile. Nell’attesa degli esiti, il medico rimanda il paziente al giorno dopo, per valutare la situazione alla luce dell’esito che sarebbe stato fornito dai vari reparti interessati.

Il giorno successivo, 30 aprile 2003, non è chiaro se nella presenza, o nell’assenza, del referto radiologico, il medico pone la diagnosi di “faringotracheite”, dispone la relativa terapia e di rivedere il paziente a venti giorni per ripetere gli esami respiratori. (…) Il medesimo giorno, alle ore 16,00 circa, il paziente perde la vita. La causa della morte accertata attraverso l’autopsia è “dissecazione dell’aorta ascendente di tipo A”.

Il giudizio controfattuale dei Giudici di appello

Ricostruito l’iter clinico, i Giudici di Appello stigmatizzano la condotta del medico curante del paziente (però estraneo al giudizio), che – pur in presenza di un pregresso clinico così rilevante per il paziente e dei sintomi che, con ampia probabilità, denotavano la presenza di una patologia connessa – ha omesso di prescrivere una ecografia che, immediatamente, avrebbe potuto fornire un quadro obiettivo chiaro, ben prima della visita effettuata in ospedale il giorno 29/4/2003.

Infatti, correttamente, i Giudici di secondo grado hanno evidenziato che “Tutto tale periodo non può ricadere a carico del medico dell’Ospedale, il quale ha dunque ricevuto il paziente in un momento già in qualche modo segnato da un grave rischio di morte” … Tuttavia il detto sanitario “dando pure per certo, sulla scorta dei dati emergenti dalla cartella clinica del ricovero in day hospital del 29 aprile 2003, che al medico non fosse stata data notizia della toracoalgia, né dell’aumento pressorio, è pur vero che:

  • tali dati emergono dal referto del cardiologo che in quello stesso giorno ha effettuato l’elettrocardiogramma, referto visionato dallo pneumologo, il quale infatti dichiara di averlo letto e di non aver visto solo la parte in cui ‘si consiglia ricovero: ecocardiogramma, rx torace’.
  • Il detto pneumologo ha richiesto una serie di esami per valutare, il giorno dopo, la condizione complessiva e la terapia da adottare, e dunque, ove anche fosse stata mancante la radiografia toracica prescritta, avrebbe dovuto comunque sincerarsi (sarebbe bastata una telefonata ad altro reparto dello stesso presidio…) del risultato (…).”

La condotta negligente dello pneumologo

Ebbene, dopo tale accertamento, il Giudice d’appello individua specificamente la data della consumazione della condotta negligente dello pneumologo nel giorno 30/4/2003, ossia in quella delle “dimissioni interlocutorie” del paziente con la diagnosi di faringo-tracheite. Ma allo stesso tempo nega l’incidenza di detta negligenza sul decorso causale (sub specie di causalità giuridica) tenendo conto della ingravescenza cronologica della patologia effettivamente patita, le cui chance di sopravvivenza potevano assottigliarsi nell’ordine dell’1-2% per ogni ora successiva alla comparsa della sintomatologia (avvenuta il 24/4/2003).

Il ragionamento svolto dalla Corte calabrese è errato. L’accertamento del nesso causale si sostanzia nella verifica dell’eziologia dell’omissione. Per cui occorre stabilire se il comportamento doveroso che il medico avrebbe dovuto tenere, sarebbe stato in grado di impedire o meno, l’evento lesivo, tenuto conto di tutte le risultanze del caso concreto nella loro irripetibile singolarità, giudizio da ancorarsi non esclusivamente alla determinazione quantitativo-statistica delle frequenze di classe di eventi (cd. probabilità quantitativa), ma anche all’ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica)”, E in tal senso viene richiamata la pronuncia Cass. n. 21530/2021.

Ergo, nel caso concreto non può discorrersi di “tardiva diagnosi”, bensì di omessa diagnosi tout court, giacché all’errore del medico (diagnosi di faringo-tracheite, anziché di dissecazione dell’aorta) è sopraggiunto, nell’arco di pochi giorni, il decesso del paziente.

L’errore della Corte di Appello

L’errore ascrivibile alla Corte calabrese, dunque, non sta nell’aver proceduto in termini di chance residue di sopravvivenza, pur nell’ottica della “complicanza” che si sarebbe verificata nel decorso clinico della patologia del paziente, ma proprio nell’aver collocato la data di manifestazione del comportamento negligente del medico nel 30/4/2003, anziché nel 29/4/2003.

Sul punto la motivazione resa è platealmente illogica, perché senza alcuna ragione la Corte ha “spostato in avanti di un giorno la data dell’accertata negligenza”, individuandola in quella delle “dimissioni interlocutorie”, con conseguente diagnosi di faringo-tracheite. Benché avesse prima verificato, in modo inequivoco, che già nel giorno precedente 29/4/2003 il sanitario avesse a disposizione dati che suggerivano pacificamente la necessità di ulteriori approfondimenti diagnostici per la ricerca della patologia cardiaca.

Questo significa che l’accertamento della Corte d’appello sulla “non serietà e apprezzabilità” delle chance di sopravvivenza è in primo luogo inficiato da detto errore prospettico. Inoltre la Corte non spiega perché ha ritenuto di non poter effettuare il giudizio controfattuale (compresa la possibilità di acquisire i referti non ancora pervenuti, anche solo mediante “una telefonata ad altro reparto”, per usare le parole della stessa sentenza impugnata) collocandolo temporalmente almeno 24 ore prima rispetto a quanto accertato.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte cassa la decisione e il Giudice del rinvio dovrà procedere alla corretta ricostruzione degli accadimenti e alla conseguente collocazione temporale del giudizio controfattuale, conseguentemente dovranno essere rivalutati tutti gli esiti istruttori, comprese le risultanze della CTU.

La Cassazione con l’incipit finale afferma che “il giudice del rinvio, nelle proprie valutazioni, avrà cura di ben individuare – e opportunamente distinguere, ad ogni buon fine (tenuto conto della effettiva confusione fra i due antitetici e inconciliabili concetti talvolta mostrata, in proposito, nella motivazione della sentenza impugnata, come pure denunciato, passim, dai ricorrenti in alcuni dei motivi rimasti assorbiti) – i concetti di “chance di sopravvivenza” e di “rischio di mortalità”, avuto riguardo al decorso cronologico dell’ingravescenza della patologia, così come declinato nelle relazioni di CTU e secondo il proprio prudente apprezzamento”.

Avv. Emanuela Foligno

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