I Giudici penali e il Tribunale di Roma escludono la responsabilità dei medici e della Clinica, invece la Corte di appello di Roma condanna clinica e medici discostandosi palesemente dalle conclusioni a cui era arrivati i consulenti e senza motivare il dissenso alla CTU.
I fatti
Il paziente è stato ricoverato presso la casa di cura Nuova Itor di Roma, ove veniva diagnosticata la presenza di una neoplasia a livello duodenale, che ha comportato la necessità di un intervento chirurgico.
Durante l’intervento le condizioni del paziente si sono aggravate, tanto che è stato necessario un immediato trasferimento presso l’ospedale di Formia (la clinica Nuova Itor non aveva una unità di rianimazione). Nel presidio di Formia rimaneva alcuni giorni, fino a che l’aggravamento ulteriore delle sue condizioni ha reso necessario il trasferimento presso l’Aurelia hospital di Roma, dove poi è deceduto.
I familiari procedevano penalmente, tuttavia la causa si concludeva con l’archiviazione, basata sul fatto che sia la diagnosi, che l’intervento erano stati eseguiti correttamente. Procedevano, quindi in sede civile dinnanzi al Tribunale di Roma che, disposta CTU medico-legale, ha escluso la responsabilità dei medici della clinica, sia perché l’intervento era stato eseguito correttamente, sia perché l’assenza in sede di una sala di rianimazione non aveva inciso sull’evento, atteso l’immediato trasferimento presso l’ospedale di Formia, dove poi il trattamento di rianimazione era stato tentato.
Tuttavia, la Corte d’appello di Roma ha riformato la decisione di primo grado e ha ritenuto responsabile la clinica per fatto dei suoi medici con conseguente condanna al risarcimento del danno. Questa decisione viene impugnata in Cassazione e, nelle more, la Clinica ha rinunciato al ricorso nei confronti degli eredi del paziente con i quali è intervenuta una transazione e ha mantenuto invece la domanda nei confronti dei medici suoi dipendenti.
Il ricorso in Cassazione
La S.C. accoglie in parte le censure della Casa di Cura.
La tesi della ricorrente è che i giudici di appello si sono discostati dalla CTU senza però motivarne le ragioni. Dalla CTU espletata in primo grado era chiaramente emerso che non vi era stata colpa alcuna dei sanitari nel trattamento chirurgico, né della clinica nel fatto di non avere una sala di rianimazione, atteso l’immediato trasferimento in un ospedale che ne era invece dotato. Anche i consulenti del PM nel procedimento penale avevano concluso nello stesso senso. Per contro, i Giudici di merito avrebbero sostituito alle conclusioni dei CTU delle proprie valutazioni personali, ma senza confrontarsi con le ragioni dei Consulenti.
La censura è fondata (Corte di Cassazione, III civile, 7 ottobre 2024, n. 26180).
I Giudici di appello danno conto del perché hanno ritenuto colpevole la condotta dei medici chirurghi, ma, come evidenziato dalla clinica ricorrente, non si sono confrontati con l’opposta valutazione del consulente tecnico. L’onere del Giudice di motivare in caso di dissenso alla CTU impone di tenere in considerazione gli argomenti da quest’ultimo utilizzati e contraddirli specificamente.
I giudici di appello hanno prospettato una loro ricostruzione, ma senza tenere in conto, e dunque senza confutare, quella dei consulenti tecnici. Non vale come confutazione il mero richiamo di un dato statistico contenuto nelle CTU, che è utilizzato solo come dato di fatto, peraltro non contraddetto.
I CTU hanno escluso il nesso causale tra la mancanza della sala di rianimazione e il decesso
I CTU hanno escluso la rilevanza causale dell’assenza di una sala di rianimazione presso la Clinica, atteso l’immediato e tempestivo trasferimento del paziente all’ospedale di Formia, dove invece la sala c’era. A tale conclusione la sentenza impugnata replica considerando “imprudente” la decisione di eseguire l’intervento presso un luogo non attrezzato a fronteggiare le complicanze post operatorie, il che però non smentisce la tesi dei CTU sulla circostanza che, imprudente o meno che fosse tale scelta, non ha influito, essendovi stato tempestivo trasferimento del paziente presso un ospedale attrezzato.
Dalla CTU era emerso che, presso l’ospedale di Formia, il paziente non era stato sufficientemente seguito, anche se sin dai primi giorni si era manifestata una situazione di setticemia. Solo dopo diversi giorni è stata effettuata una TAC: il CTU, dunque, aveva giudicato colpevole l’inerzia dei sanitari di Formia, allo stesso modo avevano concluso i consulenti del PM, i quali avevano chiaramente ritenuto negligente la condotta dei sanitari di Formia e tale condotta, che era invece causalmente rilevante, non è stata tenuta in alcun conto dalla Corte di appello.
I giudici di appello non hanno confutato gli argomenti della CTU
I Giudici di merito, nel discostarsi dalla CTU, non hanno confutato gli argomenti che i consulenti hanno addotto, non si sono confrontati con le conclusioni e con le ragioni degli ausiliari, ma hanno adottato una loro autonoma e personale soluzione. Infatti era emerso che la condotta dei sanitari dell’ospedale di Formia era stata negligente in maniera rilevante, e questa indicazione dei CTU rilevava sul piano dell’accertamento del nesso di causa.
Ed ancora i Giudici di merito hanno errato nel ritenere “imprudente” da parte della Clinica il fatto di eseguire l’intervento in sede nonostante l’assenza di una sala di rianimazione. Tuttavia, l’individuazione di una colpa in tale condotta contrasta con il fatto che la Clinica aveva l’autorizzazione ad operare interventi chirurgici, autorizzazione che teneva conto della assenza di una sala di rianimazione.
Al riguardo la Cassazione osserva come sia ben vero che l’osservanza di una cautela specifica (ottenere l’autorizzazione agli interventi chirurgici) non toglie che la colpa possa essere integrata dalla violazione di una cautela generica; ma è anche vero che la cautela generica violata deve essere individuata.
Ovverosia: se l’autorizzazione ad operare è stata concessa anche in ragione del fatto che, in caso di emergenza, il paziente può essere trasferito in un centro più attrezzato, allora occorre indicare quale cautela generica (cioè non prevista da “leggi, regolamenti, ordini o discipline”, art. 43 c.p.) sia stata violata, ossia cosa imponeva alla Clinica di non effettuare l’intervento nonostante avesse l’autorizzazione, generale, a farlo.
Non può l’imprudenza consistere nella mera circostanza di avere effettuato l’intervento pur sapendo che non vi era sala di rianimazione e ciò in quanto tale intervento era, per l’appunto, autorizzato.
Conclusivamente, la Cassazione accoglie le doglianze della Clinica sopra sviscerate e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione.
Avv. Emanuela Foligno