Emorragia post partum e infezione da HCV (Cassazione civile, sez. III, 31/08/2022, n.25622).

Emorragia post partum e la donna a seguito di emotrasfusione, contrae il virus dell’epatite di tipo C.

La particolare decisione qui a commento tratta del principio iuria novit curia, secondo cui, come noto, il Giudice è libero di applicare le norme di diritto che meglio ritiene adattabili al caso concreto, dandogli la qualificazione giuridica che ritiene corretta prescindendo eventualmente da quelle richiamate dalle parti a fondamento delle rispettive richieste.

Ciò comporta, inoltre, che non sussiste un onere a carico delle parti di indicare la norma posta a fondamento della loro pretesa.

La paziente conveniva in giudizio il Ministero della Salute, la Regione Emilia Romagna e la Gestione Liquidatoria della ASL di Bologna al fine di ottenere la condanna al risarcimento dei danni alla salute per contrazione di virus HCV derivante da emotrasfusione.

Esponeva che nel mese di novembre 1999 si era sottoposta ad un intervento chirurgico, e che nei giorni precedenti l’intervento era stata sottoposta ad esami di routine dai quali emergeva una grave alterazione degli indici di funzionalità epatica e la positività all’HCV.

Nel giugno del 1979 era stata sottoposta presso l’Ospedale di Bologna ad una terapia trasfusionale di plasma e sangue in seguito ad un’emorragia post partum, identificava, perciò, la causa della contrazione del virus da epatite di tipo C in una manovra medica sbagliata perpetrata in sede di assistenza al parto.

Il Tribunale di Bologna rigettava la domanda attorea dichiarando il difetto di legittimazione passiva della Regione e della Gestione Liquidatoria e ritenendo prescritta l’azione nei confronti del Ministero della Salute.

La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza del 2018, rigettava l’appello principale e respingeva gli appelli incidentali della Regione Emilia Romagna e della Gestione Liquidatoria USL, condannando la donna al rimborso delle spese in favore di ciascun appellato e delle Compagnie terze chiamate in causa.

In particolare, la Corte territoriale riteneva che fosse stata correttamente inquadrata la natura della domanda proposta dall’attrice in termini di responsabilità extra- contrattuale, non potendo il principio iuria novit curia tradursi nella surrogazione officiosa del potere dispositivo che ricade sulla parte.

Ribadiva, inoltre, la carenza di legittimazione passiva della Regione e della Gestione Liquidatoria, confermando la legittimazione esclusiva del Ministero della Salute, nei cui confronti veniva riconosciuta l’intervenuta prescrizione del diritto azionato.

Sul punto precisava il Giudice d’Appello che il termine prescrizionale quinquennale decorreva dal giorno del ricovero presso l’Ospedale  di Bologna, posto che tanto la domanda di indennizzo ex legge n. 210/92,  quanto qualsiasi altro atto di cui non fosse stata data prova dell’avvenuta ricezione da parte del destinatario non potessero configurarsi come atti interruttivi della prescrizione.

La donna propone ricorso in Cassazione articolando cinque diverse censure.

Con il primo motivo deduce che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente inquadrato la natura della domanda proposta dall’ attrice nei confronti della struttura sanitaria quale azione di responsabilità extra-contrattuale.

Secondo la ricorrente, la Corte non avrebbe analizzalo gli ulteriori atti difensivi, le richieste istruttorie, la storia clinica, la relazione medico legale e le diffide precedenti, elementi che, se considerati, l’avrebbero indotta a qualificare l’azione come fondata su di una responsabilità contrattuale del Ministero, potendo il principio iura novit curia sopperire alle carenze sostanziali dell’azione proposta dalle parti. All’errata qualificazione della domanda avrebbe, altresì, contribuito la mancata valutazione da parte del Giudice dell’allegazione effettuata dalla ricorrente nel giudizio di prime cure relativamente alla causa che ne aveva determinato la patologia – una manovra medica sbagliata, che provocava l’emorragia post partum e rese necessaria la trasfusione da cui era poi derivata la contrazione dell’HCV – con riferimento alla quale nulla era stato eccepito dalle parti in causa e che avrebbe dovuto, perciò, essere posta alla base della decisione ex art. 115 c.p.c..

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la errata attribuzione di carenza di legittimazione passiva in capo alla Regione Emilia Romagna e alla Gestione Liquidatoria, legittimazione che, di converso, avrebbe dovuto ritenersi legittimamente predicabile a titolo di responsabilità contrattuale, differenziata da quella aquiliana imputabile al Ministero.

Con la terza doglianza la ricorrente indica l’errata individuazione del termine iniziale di prescrizione per il danno derivante da emotrasfusione, essendo stato indicato con il giorno del ricovero presso l’Ospedale. Secondo la tesi della ricorrente il dies a quo della prescrizione decorre, per giurisprudenza consolidata, dal momento della presentazione della domanda amministrativa ai sensi della L. n. 210 del 1992.

Con il quarto motivo lamenta come errato non essere stato considerato come atto interruttivo del termine prescrizionale la domanda di indennizzo ex L. n. 210 del 1992 presentata al Ministero della Salute nonché le ulteriori comunicazioni formali.

Con l’ultimo motivo viene censurata la condanna alle spese.

Osserva preliminarmente il collegio come, dalla relata di notifica indirizzata al Ministero della Salute allegata al ricorso, si evince che  l’Avvocatura di Stato – sia stata non quella Generale, con domicilio in Roma, ma quella regionale, domiciliata in Bologna.

Ergo, la mancata costituzione del Ministero impedisce di ritenere sanata la nullità della notificazione, attesone il mancato raggiungimento dello scopo dell’atto, e viene disposta la rinotificazione.

Alcune brevi considerazioni sulla decisione della Cassazione.

Per quanto riguarda il dies a quo del termine prescrizionale per i danni da emotrasfusione, secondo la Cassazione — ordinanza 5 febbraio 2018, n. 2665 — la data di presentazione della domanda di indennizzo integra le condizioni richieste per consentire al soggetto danneggiato non un qualunque sospetto sulle possibili cause della malattia, ma una certezza in merito alla percezione della medesima e al nesso causale tra la malattia stessa ed i fatti che la hanno generata. E questa è la tesi seguita dalla ricorrente.

Invero, la presentazione della domanda di indennizzo L. 210 costituisce il limite ultimo per la decorrenza della prescrizione, atteso che questa attesta l’esistenza, in capo all’interessato, di una sufficiente e adeguata percezione della patologia. In ogni caso, la giurisprudenza non esclude la possibilità di collocare il dies a quo della prescrizione in un momento precedente, valorizzando le informazioni in possesso del danneggiato e la diffusione delle conoscenze scientifiche, in base a un accertamento rimesso al Giudice del merito. Ad esempio, la Suprema Corte, con la sentenza n. 23635/2015, ha cassato il provvedimento che aveva individuato il momento iniziale nella data di presentazione della domanda amministrativa di indennizzo, avvenuta nel 1997, senza valutare che il danneggiato si era sottoposto a trasfusioni mensili sin dall’anno 1984 e la diagnosi della malattia risaliva al 1994, quando la conoscenza del problema doveva ritenersi di dominio pubblico, essendo già in vigore la legge 210.  In un’altra sentenza, la n. 28464/2013, la Cassazione ha escluso che la prescrizione possa decorrere soltanto dalla comunicazione del responso delle commissioni medico-ospedaliere sulla domanda di indennizzo.

Ebbene, dalla violazione dell’obbligo di utilizzo di sangue infetto discende la responsabilità del Ministero della Salute, che può essere fatta valere dai soggetti interessati attraverso l’esercizio dell’azione amministrativa per l’ottenimento dell’indennizzo di cui alla legge 210/1992, ovvero attraverso la domanda di risarcimento del danno derivante dalla responsabilità extracontrattuale del Ministero della Salute dinanzi al Tribunale Ordinario.

Conseguentemente, il diritto al risarcimento è normalmente soggetto alla prescrizione quinquennale ex art. 2947, comma 1, cod. civ..

Tale termine è tuttavia destinato a diversificarsi in caso di decesso del danneggiato. Infatti, qualora il fatto sia considerato dalla legge come reato e per il reato sia stabilita una prescrizione più lunga di quella ordinaria, quest’ultima si applica anche all’azione civile, ai sensi dell’art. 2947, co. 3, c.c..

In tal caso: la prescrizione rimane di cinque anni con riferimento al danno subito, in vita, dal paziente – e poi fatto valere dagli eredi iure hereditatis – trattandosi di un danno da lesione colposa, reato soggetto a prescrizione quinquennale; la prescrizione sale invece a dieci anni in relazione al danno subito dai congiunti della vittima iure proprio, e cioè in relazione al danno per la perdita del congiunto posto che, da tale punto di vista, il decesso del congiunto emotrasfuso integra omicidio colposo, reato soggetto a prescrizione decennale

Ergo, seppur in presenza di variegate decisioni, ciò che rimane fermo, e che risulta dirimente ai fini della individuazione del dies a quo del termine prescrizionale è la conoscenza da parte del paziente della patologia contratta. 

Per quanto riguarda il principio  “iura novit curia”, secondo  Cass. n. 5832/2021, tale principio importa la possibilità per il Giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti ed ai rapporti dedotti in lite, nonché all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, potendo porre a fondamento della sua decisione princìpi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti. Tale principio deve essere posto in immediata correlazione con il divieto di ultra o extra-petizione, di cui all’art. 112 c.p.c., in applicazione del quale è invece precluso al Giudice pronunziare oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, mutando i fatti costitutivi o quelli estintivi della pretesa, ovvero decidendo su questioni che non hanno formato oggetto del giudizio e non sono rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato.

Di talchè non paiono fondate le censure mosse alla decisione d’appello.

Avv. Emanuela Foligno

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