È qualificabile come estorsione e non come esercizio arbitrario delle proprie ragioni la condotta di chi, commette il reato senza avere la titolarità del diritto vantato

La vicenda

Sottoscritto un preliminare di compravendita con l’imputato, la persona offesa non vi aveva poi adempiuto,  recando danno agli interessi civilistici di quest’ultimo. Tale comportamento aveva provocato l’ira del primo, il quale, in concorso con altro soggetto, si era recato nell’abitazione della persona offesa con l’intenzione di incastrarlo con un tranello e quindi ricattarlo.

In primo e secondo grado, l’imputato veniva ritenuto colpevole del delitto di violazione di domicilio pluriaggravata ed estorsione aggravata e perciò, condannato alla pena di 5 anni e 9 mesi di reclusione ed euro 800 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali.

Il ricorso per Cassazione

Contro la predetta sentenza, la difesa presentava ricorso per Cassazione denunciando l’errata applicazione della legge penale e facendo leva sulla diversa qualificazione giuridica del fatto, ossia quella meno grave dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

La vicenda è stata definita dai giudici della Seconda Sezione Penale della Cassazione (sentenza n. 27876/2019) che hanno definito i confini tra le due fattispecie criminose.

“Il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona e quello di estorsione si distinguono non per la materialità del fatto, che può essere identica, ma per l’elemento intenzionale che, qualunque sia stata l’intensità e la gravità della violenza o della minaccia, integra la fattispecie estorsiva soltanto quando abbia di mira l’attuazione di una pretesa non tutelabile davanti all’autorità giudiziaria.

A fronte di tale ricostruzione vi è, poi, chi sostiene di poter distinguere le due figure di reato in relazione alla condotta tenuta dall’agente affermando “che finisce con l’integrare il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta minacciosa che si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un preteso diritto, con la conseguenza che la coartazione dell’altrui volontà assume di per sé i caratteri dell’ingiustizia, trasformandosi in una condotta estorsiva”.

La decisione

Nel caso, di specie, mentre il Tribunale aveva privilegiato la prima tesi, la Corte di Appello aveva insistito sulla impossibilità di ricondurre l’azione violenta posta in essere in danno della persona offesa alla luce delle sue modalità e caratteristiche estrinseche, all’esercizio di un diritto.

Era, tuttavia, emerso che l’iniziativa posta in essere nei confronti della vittima fosse stata adottata da chi, ovvero l’imputato, non era in alcun modo titolare del diritto derivante dal contratto preliminare sottoscritto con la persona offesa e che, infatti, era stato concluso con la società di cui, peraltro, egli non era nemmeno legale rappresentante o socio.

Ebbene, al riguardo, è stato già chiarito che il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni rientra, diversamente da quello di estorsione, tra i cosiddetti reati propri esclusivi o di mano propria, per questa ragione configurabili soltanto laddove la condotta tipica sia stata posta in essere da colui che ha la titolarità del preteso diritto.

La corte d’Appello aveva, dunque, errato nella sua valutazione, omettendo di considerare che il diritto vantato fosse riferibile ad un soggetto “terzo” e che mai egli avrebbe avuto la possibilità, come tale, di farlo valere personalmente in giudizio.

Per tali motivi il ricorso è stato accolto e, la decisione impugnata annullata con rinvio.

La redazione giuridica

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