Fa prostituire la moglie per mandare avanti la famiglia. L’uomo viveva alle spalle della moglie, coordinando luogo e tempo degli appuntamenti e gestiva gli incassi: la Cassazione conferma la condanna per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione

La vicenda

Con sentenza della Corte di appello di Venezia, un uomo era stato condannato alla pena di un anno, un mese e dieci giorni di reclusione e, 266 euro di multa, per il reato di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione commesso in danno della moglie.
I fatti risalivano ai mesi di novembre e dicembre 2015.
Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, l’imputato, nel periodo indicato, era solito accompagnare la moglie sul luogo di prostituzione e sistemare l’appartamento affinché la stessa potesse ricevervi i clienti; quest’ultima, poi, lo teneva sempre aggiornato sui guadagni conseguiti, che venivano per lo più gestiti in comune.
Contro la predetta sentenza di condanna, l’imputato presentava ricorso per Cassazione, denunciando la dubbia configurabilità del delitto citato, posto che tutto si sarebbe svolto all’interno del rapporto di coniugio.
Ma per i giudici della Suprema Corte l’assunto difensivo oltre ad essere totalmente privo di fondamento era anche contrario ai principi di diritto più volte ribaditi in giurisprudenza.
Ed invero, risulta assolutamente consolidato il principio secondo cui configura il delitto di sfruttamento della prostituzione, la condotta del coniuge o convivente di una prostituta che, avendo la piena consapevolezza dell’attività sessuale a pagamento della donna, tragga i mezzi di sussistenza, in tutto o in parte, dai guadagni della prostituta, anche nel caso in cui tali proventi vengano ceduti spontaneamente per contribuire alla vita familiare.
Del resto, si è anche osservato che l’instaurazione di un rapporto di convivenza more uxorio con una donna non scrimina, alla stregua di quanto avviene nei rapporti coniugali, l’attività di favoreggiamento e di sfruttamento della stessa, a nulla rilevando, data la ratio della norma incriminatrice, che i proventi della prostituzione siano impiegati allo scopo dichiarato di mandare avanti il menage familiare.

Lo sfruttamento alla prostituzione

In linea generale, infatti, la nozione di «sfruttamento», secondo l’ordinaria accezione etimologica, non implica necessariamente l’approfittamento di uno stato di bisogno o di inferiorità di un’altra persona. Inoltre, nel dettato dell’art. 3, primo comma, n. 8, legge 20 febbraio 1958, n. 75, lo “sfruttamento” è riferito non ad una persona, la “prostituta”, ma ad una attività, la «prostituzione».
Ebbene, sul punto la sentenza impugnata aveva ricostruito analiticamente le condotte dell’imputato.
Era emerso che egli vivesse “alle spalle” della moglie e della sua attività prostitutiva e che per mesi le avesse fornito «sostegno e supporto “logistico”», perché era in costante contatto con la donna, la quale gli dettava tempi e luoghi del trasporto e del recupero, gli chiedeva la disponibilità dell’appartamento, nonché la sistemazione dello stesso per gli incontri con particolari clienti, e lo informava sui guadagni, in relazione ai quali vi era una gestione comune.
In altre parole, la corte d’appello aveva accertato che l’imputato viveva dei proventi dell’attività della moglie e collaborava con la stessa per agevolare lo svolgimento dell’attività di meretricio, e che, quindi, avendo la piena consapevolezza dell’attività sessuale a pagamento della donna, traeva i mezzi di sussistenza, in tutto o in parte, dai guadagni della prostituzione.
Anche per i giudici della Cassazione, allora, i fatti erano inquadrabili nella fattispecie incriminatrice di cui all’art. 3, primo comma, n. 8, legge 20 febbraio 1958, n. 75, come condotta di sfruttamento della prostituzione.

La redazione giuridica

 
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