Respinto il ricorso di un uomo condannato per aver proferito una frase volgare a due rappresentanti della polizia municipale che lo invitavano a rallentare la velocità di guida del suo veicolo
Con la sentenza n. 9200/2020 la Suprema Corte si è pronunciata sul ricorso presentato da un uomo condannato in sede di merito per oltraggio a pubblico ufficiale. Secondo l’accusa, l’imputato, in luogo pubblico e alla presenza di più persone, aveva proferito all’indirizzo di due agenti della polizia municipale, nell’esercizio e a causa delle loro funzioni istituzionali, una frase volgare, ovvero: “che cazzo volete, non mi rompete la minchia”.
Nel ricorrere per cassazione il condannato eccepiva che tale condotta non avrebbe integrato il reato ipotizzato in quanto non atteneva alle qualità morali delle persone esercenti l’ufficio pubblico, e perciò non ne avrebbe leso l’onore. Inoltre le parole pronunciate non avrebbero rivestito una valenza obiettivamente denigratoria della funzione svolta dagli agenti e, quindi, non ne avrebbero compromesso il prestigio. Non v’era poi prova dell’avvenuta percezione della frase da più di due persone.
Per i Giudici Ermellini, tuttavia, motivo di ricorso è manifestamente destituito di fondamento giuridico.
La frase pronunciata dal ricorrente – spiegano dal Palazzaccio – è obiettivamente lesiva dell’altrui onore, rappresentando incontestabile manifestazione di disprezzo verso la persona del destinatario, indipendentemente dal ruolo sociale da questi ricoperto.
Nel caso specifico, inoltre, non v’è dubbio che essa sia stata rivolta agli agenti della polizia municipale, non soltanto nell’esercizio delle loro funzioni istituzionali, ma altresì in ragione di tale loro ruolo, avendo essa rappresentato l’immediata reazione tenuta dall’imputato all’attività autoritativa da essi doverosamente esplicata e consistita nell’intimazione a rallentare la velocità di guida del suo veicolo.
La frase, pertanto, si presentava lesiva anche del prestigio del pubblico ufficiale, da intendersi quale rispetto e considerazione dovuti a chi eserciti legittimamente una pubblica funzione.
La Cassazione ha infine chiarito che, ai fini della sussistenza del reato, inoltre, non è necessario che l’offesa sia stata percepita da più persone, oltre ai destinatari. E’ sufficiente, infatti, che le espressioni offensive possano essere udite dai presenti, poiché già questa potenzialità costituisce un aggravio psicologico, che può compromettere l’attività del pubblico ufficiale, facendogli avvertire condizioni avverse, per lui e per l’amministrazione di cui fa parte, ulteriori rispetto a quelle ordinarie.
Pertanto, è necessaria soltanto la prova della presenza di più persone e, ove questa risulti accertata, è sufficiente a far ritenere integrato il reato la mera possibilità della percezione dell’offesa da parte dei presenti. Nel caso specifico, era indiscusso che il fatto fosse avvenuto in una pubblica piazza e nel corso di una manifestazione religiosa, in presenza di una moltitudine di persone: talché la prova logica della mera possibilità di percezione dell’offesa poteva ritenersi ampiamente soddisfatta.
La redazione giuridica
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