Un’importante sentenza del Tribunale civile di Palermo ha fatto chiarezza su un caso di fumo passivo che aveva coinvolto una dipendente pubblica 

Il 2 maggio 2017 il giudice monocratico del Tribunale civile di Palermo, dott. Riccardo Trombetta, con la sentenza n. 2227 ha condannato la Regione Sicilia ad un maxi risarcimento pari ad un milione e mezzo di euro, alla famiglia di una funzionaria dell’Assessorato ai Beni Culturali morta di tumore ai polmoni a causa del fumo passivo respirato per anni in ufficio.
È una decisione che mostra chiaramente come le nostre azioni e/o omissioni possano negativamente incidere sulla vita degli altri.

Il fumo passivo sul posto di lavoro.

Il fumo passivo è stato classificato come “agente cancerogeno noto per l’uomo” dall’Agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti nel 1993, dal Dipartimento della sanità e i servizi sociali degli Stati Uniti nel 2000 e dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’OMS nel 2002. Recentemente, l’Agenzia per la protezione dell’ambiente della California ha classificato il fumo di tabacco un “inquinante tossico dell’aria”.
Attualmente a livello europeo, il fumo passivo non è stato classificato come preparato cancerogeno, in base alla Direttiva sui preparati pericolosi (1999/45/CE).

I fatti.

Una donna comincia a lavorare in Regione nel 1979 e per ben 21 anni è rimasta esposta al c.d. fumo passivo, nonostante le sue continue rimostranze.
Nell’aprile del 2001 le viene diagnosticato un adenocarcinoma polmonare, che, nel 2004, dopo sofferenze e numerose sedute di chemioterapia la stronca.
I familiari promuovono nel 2009 un’azione risarcitoria nei confronti della Regione Sicilia, che si conclude positivamente.
La decisone non è stata impugnata dalla Regione Siciliana.
La giurisdizione del giudice ordinario.
La prima questione di cui deve occuparsi il Tribunale di Palermo è quella relativa alla giurisdizione, che il giudice risolve affermando quella del giudice ordinario, sostenendo che nel lavoro pubblico c.d. privatizzato, ex art. 69, comma 7, D. Lgs. n. 165 del 2001, ove il lavoratore-attore riferisca le proprie pretese ad un periodo in parte anteriore ed in parte successivo al 30 giugno 1998, la regola del frazionamento della competenza giurisdizionale tra giudice amministrativo in sede esclusiva e giudice ordinario, in relazione ai due periodi interessati, trova temperamento in caso di illecito permanente, e pertanto, se la lesione del diritto del lavoratore origina da un comportamento permanente del datore di lavoro, occorre fare riferimento al momento di realizzazione del fatto dannoso e, quindi, al momento della cessazione della permanenza, con la conseguenza che va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario allorché tale cessazione sia successiva al 30 giugno 1998 (cfr. Cass. n. 20933 del 2011).

L’obbligo protettivo gravante sul datore di lavoro

L’art. 2087 c.c., impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (cfr. Cass., n. 6326/2006; C. Cost. n. 359 del 2003) anche nei casi in cui le condotte antigiuridiche siano poste in essere dai colleghi di lavoro (ex multis Cass. 18262/07, n. 16148/07), direttamente applicabile anche alla P.A. e l’art. 3 della L. 626/94, costituiscono obbligazioni ex lege integranti il contratto di lavoro, la cui violazione è fonte di responsabilità contrattuale.
Ebbene, osserva il Tribunale, che pur essendo vero che dal 1979 al 2002, negli uffici aperti al pubblico della Regione Siciliana non vigeva un esplicito divieto legislativo di fumare, la L. 11.11.1975, n. 584, sul “Divieto di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto pubblico” ,aveva prescritto un divieto di fumo nei locali chiusi adibiti a pubblica riunione, ossia negli ambienti aperti al pubblico ove si erogavano servizi dell’amministrazione (cfr. TAR Lazio, sentenza n. 462/1995) e tanto nella consapevolezza dei rischi alla salute che le immissioni di fumo sono in grado di arrecare.
Era comunque obbligo giuridico dell’amministrazione, di natura contrattuale sin dal 1993, quello di vietare la combustione di sigarette all’interno dei locali chiusi ove il personale era chiamato a trascorrere molte ore quotidiane, vigilando poi sull’effettivo rispetto del divieto, o quello di predisporre adeguati sistemi di circolazione dell’aria che riducessero al minimo la respirazione di tali fumi da combustione.

Il principio della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non.

Gli attori sostengono che tale condotta antigiuridica ha cagionato o contribuito a cagionare la patologia tumorale della propria condotta.
Il Tribunale esclude l’applicabilità, in sede civile, dei principi affermati dalla SS. UU. Penali della Suprema Corte con riferimento al reato omissivo c.d. improprio (cfr. sentenza Franzese, n. 30328 del 2013), in forza dei principi di legalità, tassatività e tipicità delle fattispecie criminose che informano solo il diritto punitivo, in luogo dell’ivi previsto principio dell’”alto grado di credibilità razionale” in questa sedes materiae e si è ormai affermato quello della “preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non”, che predica la possibilità per il giudice civile di affermare l’esistenza del nesso causale tra condotta illecita/inadempiente e danno “anche soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile, a nulla rilevando che tale prova non sia idonea a garantire una assoluta certezza al di là di ogni ragionevole dubbio” (cfr. Cass., n. 23933/13; n. 21619/07; n. 6222/16).

Il nesso causale.

Il Tribunale assume che nel sistema delle responsabilità civile non possono che aversi due alternative: o è certo che il fattore naturale sia tale da escludere del tutto il nesso di causa, oppure si deve ritenere la conseguente riconducibilità dell’accadimento alla condotta umana attiva o passiva (cfr. Cass., n. 15991/11), per poi valutare sempre in termini di causalità secondo alcuni, o solo in termini di giudizio di colpevolezza secondo altri, se la medesima risulti neutra ai fini del giudizio di colpevolezza secondo altri, se la medesima risulti neutra ai fini del giudizio di responsabilità civile, avuto riguardo all’avvenuta predisposizione di tutto quanto possibile ed idoneo a prevenire l’accadimento sulla base delle conoscenze disponibili e/o pretensibili.
Nel caso de quo sia il consulente d’ufficio, che i sanitari consultati dagli attori hanno unanimemente concluso nel senso della verosimile riconducibilità della neoplasia riscontrata sulla donna alla prolungata azione lesiva di siffatti cancerogeni e, pertanto, l’insorgenza della patologia neoplastica in capo alla L.C. deve ascriversi alla condotta inadempiente dell’Assessorato ai beni culturali della Regione Siciliana, che ha omesso l’adozione di misure protettive dei lavoratori avverso l’esposizione ai cancerogeni da combustione del tabacco.
Su ventuno anni è stata riconosciuta l’esposizione al fumo passivo per soli cinque anni, basando il suo calcolo sulle testimonianze in aula. Il consulente nominato dal tribunale ha indicato nel 15-20 per cento l’incidenza del fumo passivo sullo sviluppo della malattia.
 

Avv. Maria Teresa De Luca

 
 
 
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