Non sono stati ritenuti colpevoli i tre medici accusati della morte di una paziente colpita da infarto intestinale: neppure una diagnosi precoce e tempestiva avrebbe salvato la donna

La vicenda

La parte civile ricorreva per cassazione contro la pronuncia di assoluzione nei confronti dei tre medici che avevano in cura la propria congiunta, accusati del reato di omicidio colposo, per non aver sottoposto la paziente ai necessari approfondimenti diagnostici, “imposti dalle acuzie addominali da cui quest’ultima era affetta”; e per non essere intervenuti chirurgicamente in modo tempestivo così da cagionare la morte della predetta, per insufficienza multorgano, quale quale quadro terminale di un infarto intestinale. Con l’aggravante di aver commesso il fatto con violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione esercitata.

La Corte d’appello non aveva considerato l’opportunità di effettuare una TAC in occasione del peggioramento del quadro clinico della paziente, essendo stato richiesto uno studio ecografico dell’addome, che aveva evidenziato una patologia addominale in atto, senza che fosse stato eseguito alcun approfondimento diagnostico.

Una TAC eseguita nelle 48 ore precedenti l’infarto massivo – a detta della parte civile -, avrebbe certamente rivelato la patologia in atto, così come avevano affermato i consulenti dell’accusa, con evidenti possibilità salvifiche.

I consulenti del pubblico ministero avevano affermato che un’indagine TAC avrebbe verosimilmente denunciato la presenza di “una stenosi critica tromibotica aterosclerotica dell’arteria mesenterica superiore, che,a causa dell’atteggiamento attendista e censurabilmente passivo dei sanitari, aveva cagionato l’episodio acuto infartuale massivo”.

A supporto della predetta tesi, i medici legali dell’accusa avevano altresì, citato molteplici dati scientifici, da cui era emerso che “ad azzerare le possibilità salvifiche della paziente era stato proprio l’atteggiamento attendista dei sanitari, nonostante la presenza di sintomi tanto gravi da indurre i medici a programmare un nuovo intervento”.

In presenza di tale quadro i giudici di merito avrebbero dovuto esperire una perizia d’ufficio, attesa l’elevata valenza tecnica della materia e la distanza esistente tra le opposte tesi di parte, considerato anche che la parte civile, ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, non aveva potuto nominare un proprio consulente.

Il giudizio di legittimità

Prima di affrontare la questione nel “merito”, i giudici della Quarta Sezione Penale della Cassazione (sentenza n. 26568/2019), hanno inteso ripercorre le fondamenta della teoria della causalità in materia di responsabilità medica

«La spiegazione di un evento – si legge in sentenza – si svolge secondo un ben preciso schema: ciò che deve essere spiegato ( explanandum: ad esempio, la morte di Tizio ) viene inferito da un insieme di premesse ( explanans) costituite da enunciati relativi alle condizioni empiriche antecedenti di rilievo ( ad esempio, Caio ha sparato a Tizio, colpendolo al cuore) e da generalizzazioni asserenti delle regolarità (se un proiettile attinge il cuore di un uomo, questi muore). Dunque l’explanandum viene reso intelligibile mediante la connessione ad un complesso di condizioni empiriche antecedenti, sulla base delle leggi incluse nell’explanans. E’ questa la c.d. nozione nomologico-funzionale di causa, prevalente nel pensiero scientifico moderno, secondo la quale il “perché” di un evento risulta identificato con un insieme di condizioni empiriche antecedenti, contigue nello spazio e continue nel tempo, dalle quali dipende il susseguirsi dell’evento stesso, secondo un’uniformità regolare, rilevata in precedenza ed enunciate in una legge».

Ma da dove provengono le leggi utilizzabili dal giudice?

Le fonti – affermano gli Ermellini – non possono che essere due: la scienza e l’esperienza.

A quali condizioni può dirsi che un enunciato abbia valenza di legge scientifica?

Su questo tema si è ormai, da tempo registrata una sostanziale convergenza del pensiero scientifico ed epistemologico nell’enucleazione dei seguenti requisiti: la generalità; la controllabilità; il grado di conferma; l’accettazione da parte della comunità scientifica internazionale.

Ebbene, quest’ultimo criterio rappresenta il principio più pregnante nell’ottica della giurisprudenza di legittimità. Esso è, tale da segnare il discrimine tra affermazione e negazione del nesso di causalità.

“Incertezza scientifica significa mancanza di accettazione da parte della generalità della comunità scientifica della validazione di un’ipotesi. E da tale incertezza non può che conseguire l’assoluzione dell’imputato perché in questi casi non può ritenersi realizzata l’evidenza probatoria in ordine all’effettiva efficacia condizionante della condotta”.

Il giudice è, pertanto, tenuto ad accertare se gli enunciati che vengono proposti trovino comune accettazione nell’ambito della comunità scientifica, esaminando le basi fattuali sulle quali le argomeritazioni del perito o del consulente sono state condotte; l’ampiezza, la rigorosità e l’oggettività della ricerca; l’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica nonchè il grado di consenso che le tesi sostenute dall’esperto raccolgono nell’ambito della comunità scientifica ( Cass., Sez. 4, n. 18678 del 14-3-2012, Rv. 252621).

Rimane, però, fermo che, ai fini della ricostruzione del nesso causale, è utilizzabile anche una legge scientifica che non sia unanimemente riconosciuta, essendo sufficiente il ricorso alle acquisizioni maggiormente accolte o generalmente condivise, attesa la diffusa consapevolezza della relatività e mutabilità delle conoscenze scientifiche (Sez. U., 25-1-2005, Rv. 230317; Cass., Sez. 4, n. 36280 del 21-6-2012).

Di tale indagine il giudice è chiamato a dar conto in motivazione, esplicitando le informazioni scientifiche disponibili e utilizzate e fornendo una razionale giustificazione, in modo completo e, il più possibile, comprensibile a tutti, dell’apprezzamento compiuto.

Si tratta di accertamenti e valutazioni di fatto, insindacabili in cassazione, ove sorretti da congrua motivazione, poiché il giudizio di legittimità non può che incentrarsi esclusivamente sulla razionalità, completezza e rigore metodologico del predettà apprezzamento.

Oltre ai criteri sopra enunciate vi è quello altrettanto, pregnante della probabilità logica, diversa dalla probabilità statistica.

Mentre “la prima attiene, infatti, alla verifica empirica circa la misura della frequenza relativa nella successione degli eventi, la seconda contiene la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica per il singolo evento e della persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento giudiziale”.

«Il concetto di probabilità logica impone di tener conto di tutte le caratteristiche del caso concreto, integrando il criterio della frequenza statistica con tutti gli elementi astrattamente idonei a modificarla. Ad esempio: dall’indagine statistica si rileva che la somministrazione di una determinata terapia per contrastare una certa patologia, ha avuto efficacia positiva nell’80% dei casi, rimanendo ancorati al dato statistico, in tal caso, non è possibile affermare il nesso di condizionamento tra la condotta del medico che abbia omesso di prescrivere la terapia e la morte del paziente perché residuerebbe un rischio troppo elevato di condannare un innocente, dato che nel 20% dei casi la terapia non ha avuto efficacia risolutiva».

«Se la probabilità statistica viene invece, integrata da tutti gli elementi forniti dall’evidenza disponibile, è possibile pervenire ad una valutazione, in un senso o nell’altro, connotata da un elevato grado di credibilità razionale, non più espresso in termini meramente percentualistici».

Le caratteristiche del caso concreto da prendere in considerazione potranno inerire all’età, al sesso del paziente, allo stadio cui era pervenuta la patologia, alla tempestività dell’accertamento delle malattia, alle condizioni di salute generale del soggetto, alla presenza di altre patologie, alla necessaria assunzione, da parte del paziente, di altri farmaci che interferiscono con la terapia praticata e, in generale, a tutte le circostanze che possono aumentare o diminuire le speranze di sopravvivenza».

Il giudizio “oltre ogni ragionevole dubbio”

Nell’ottica del giudizio di probabilità logica un ulteriore passo è costituito dalla ricerca ed, eventualmente, dall’esclusione – di decorsi causali alternativi.

L’attività investigativa del pubblico ministero prima, e quella istruttoria del giudice devono, infatti, essere dirette non soltanto ad ottenere la conferma dell’ipotesi formulata, ma devono riguardare anche l’esistenza di fattori causali alternativi, che possano costituire elementi di smentita dell’ipotesi prospettata.

L’impossibilità di escludere, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’esistenza di fattori causali alternativi non consente di ritenere processualmente certo il rapporto di causalità e dunque di attribuire, sotto il profilo oggettivo, l’evento all’imputato.

Ebbene, nel caso in esame, la corte d’appello – a giudizio degli Ermellini – aveva fatto corretta applicazione dei principi poc’anzi enunciati, evidenziado che, secondo quanto sostenuto dai consulenti del pubblico ministero, non era affatto certo che l’esecuzione di un esame radiologico avrebbe condotto ad una diagnosi precoce dell’infarto intestinale, con conseguente effettuazione di un intervento chirurgico tempestivo.

Facendo riferimento a casistiche offerte dalla letteratura, l’azione asseritamente doverosa omessa avrebbe, infatti, evitato l’evento morte della paziente con una probabilità del 10-30%.

La decisione

Pertanto, “in considerazione dell’esiguità di tale coefficiente probabilistico, nonché dell’incertezza degli esiti di ulteriori accertamenti indicati dai consulenti del pubblico ministero come doverosi, tenuto conto dell’età della paziente e delle sue condizioni fisiche, in quanto quest’ultima era reduce da un precedente intervento chirurgico, non vi era alcuna certezza, in termini di logicità, che l’evento morte della paziente sarebbe stato evitato, ove fosse stata posta in essere l’azione doverosa omessa”.

Ed infatti, gli stessi consulenti dell’accusa avevano sottolineato l’estrema complessità, del caso di specie, derivante dalla difficoltà diagnostica della patologia in esame, che, “nelle fasi di esordio, si manifesta con una sintomatologia sfumata ed aspecifica, gravata da una prognosi pesante e severa, poiché l’infarto intestinale è una patologia ad espressione subdola, a trattamento complesso e a successo terapeutico non sempre conseguibile neanche se corretto e precoce ne sia stata la diagnosi”.

Per questi motivi è stata confermata in via definitiva la sentenza di assoluzione per i tre medici.

La redazione giuridica

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